giovedì 27 gennaio 2011

Auschwitz e Birkenau: avamposto del terrore e della morte.

Nel ’44 tante erano le esecuzioni che le ceneri venivano sparse dappertutto, nei prati circostanti e nei fiumi, e chi arrivava nei lager veniva dirottato subito nei forni. Dopo le docce i corpi venivano messi nei crematori da altri prigionieri! A loro volta poi eliminati per non lasciare testimoni. Il lavoro rende liberi e si lavorava anche 11 o 14 ore al giorno oppure, per tenere impegnati i poveretti, li si costringeva a fare movimenti ginnici tutto il giorno. Unica speranza era la nebbia che non permetteva di muoversi dai blocchi. Non ci si poteva guardare l’uno con l’altro altrimenti era morte certa. Anche mangiare era un eufemismo. La colazione era un liquido nero simile al caffè, il pranzo brodaglia, la cena un pezzetto di margarina e un tozzo di una specie di pane (tutto questo documentato in una teca). In quattro mesi si dimagriva anche 20 o 30 chili ed era la morte. Per chi veniva imprigionato (blocco 11 dove c’è anche la cella di padre Massimiliano Kolbe) c’erano varie forme di torture. Una per tutte, la morte per soffocamento: in un metro quadrato in quattro murati vivi e la fine arrivava lenta. Esperimenti e torture erano all’ordine del giorno; i medici delle SS amavano “studiare” i cadaveri non certo per la scienza ma per macabra soddisfazione. Le prigioniere decedute incinte di gemelli venivano analizzate accuratamente. Si calcola che i minori deportati siano stati 232mila, di questi 700 si sono salvati grazie alla Liberazione. Poco lontano ecco Birkenau, Auschwitz non bastava più a contenere i diversi da annientare che arrivavano da tutta Europa. L’immensa distesa è divisa in due dai binari che accoglievano i treni che portavano direttamente i deportati nel campo, anche qui, divisione delle persone e poi subito nelle capanne, non più in costruzioni in muratura; la maggior parte di queste sono andate distrutte, forni crematori compresi, dagli stessi tedeschi che quando hanno capito che era vicina la loro fine hanno appiccato il fuoco, come a voler nascondere il loro operato. Ed anche qui la vista di quel che resta si intreccia con l’immaginazione di istanti vissuti dalle vittime dell’odio. Ci vengono in mente scene di vita e di
morte: mamme che stringono i figli che poi vengono loro strappati. Padri e madri divisi dai figli, sorelle dai fratelli, mogli dai mariti. Violata la minima intimità, annientata la propria dignità e identità. Ed ecco i giacigli dove “vivevano” ammassati, mangiatoie di legno a tre piani, il primo, quello rasoterra, era nel fango o nella neve che filtravano dalle fessure superiori ed inferiori. Ogni giaciglio naturalmente “accoglieva” più persone in uno spazio più che minimo. Ecco la latrina, una lunga sequenza di fori per defecare e urinare a orari stabiliti. I lavandini, ma l’acqua non scorreva di certo a fiumi. E anche qui ecco i più “fortunati” addetti alla pulizia delle latrine. Le esalazioni mantenevano il caldo in inverno e gli addetti erano più liberi perché lì, i soldati tedeschi non entravano facilmente a causa del fetore. Questo è il racconto di quanto accaduto non secoli fa ma soltanto ieri. Il racconto di quanto commesso non da esseri di un altro pianeta ma di questo. Una testimonianza affinché non accada più. Mai più.

Emanuela Sirchia

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