martedì 24 dicembre 2013

NATALE 2013, "CAMBIARE VITA PER CAMBIARE SE STESSI"

Prendo in prestito questa citazione di Tiziano Terzani per gli auguri di queste festività. 

Questo 2013 mi ha portato un bel cambiamento che mi ha permesso, per la prima volta, di sentire l'odore della carta stampata. E' stato un ritornare per strada con l'animo del reporter, pronto a ritrovare quelle sensazioni, lasciate da qualche parte e riscoperte. Di quest'anno, porto con me l'entusiasmo, nonostante le difficoltà, ma anche le tante "Storie" che danno un senso alla vita e che ho avuto la possibilità di poter raccontare. Come quella di Margherita, moglie del brigadiere Coletta, caduto a Nassiriya dieci anni fa, che cita il Vangelo e parla di perdono, oppure quella di Mamma Luisa anche il suo Pietro è morto in Iraq a soli 22 anni e da quel giorno non c'è giorno che lui non sia nei suoi pensieri. Eroi. Come quelli che riescono ancora a darsi agli altri. Enrico, per esempio, che ha salvato un'anziana sola da un incendio, oppure Marco che ha coordinato i soccorsi per l'alluvione in Sardergna. Poi, gli sguardi che ho incontrato. Come quello di Fatima, giovane e determinata, che in Libano si batte per i diritti delle donne. Proprio a Tyro, nei pressi dell'antico Suk esiste un centro dove vengono accolti i bambini con difficoltà e i piccoli profughi della Siria in guerra. Due di loro sono con me in questa foto: ogni volta che la rivedo, i loro occhi mi dicono che bisogna andare avanti. Ecco, perchè ho scelto di condividerla con voi che forse, come me, siete un po' sognatori. Perchè in questi posti di certo del sorriso c'è bisogno. E allora non possiamo non averlo noi che apparteniamo a quest'altra metà del mondo. Anche l'ironia spesso viene a trovarmi in questo lavoro. Quel pizzico che insieme alla curiosità traducono una foto in notizia, una persona in personaggio. Come Melissa che lasciato perdere le passerelle di moda e la fascia di Miss Padania per indossare una divisa e andare a servire lo stato al confine con Israele. Non occorre andare nel lungo-raggio, di storie ne abbiamo trovate anche a casa nostra. Come quella di Gigi Proietti innamorato del borgo di Ostia Antica tanto da andare a mangiare i cappelletti nel ristorante che fu caro a Federico Fellini, oppure quella di Mister Garcia, il tecnico della Roma che passeggia per Casalpalocco e vieta il caffè ai suoi giocatori. Queste sono state le nostre "Storie" del 2013. Tra pochi giorni, si riparte. Siamo pronti. Per... "Un altro giro di giostra".


Mirko Polisano


sabato 9 novembre 2013

BERLINO, IL CROLLO DEL MURO 24 ANNI DOPO. DA CITTA’ DI FRONTIERA A PONTE D’EUROPA


Nel giorno dell’anniversario, tutto diventa ricordo. Era il 9 novembre del 1989, esattamente 24 anni fa, quando il muro di Berlino fu abbattuto. Non crollavano solo i pilastri di cemento, ma un modo di pensare che ha diviso una città, l’Europa e il mondo in est e ovest, oriente e occidente, Usa e Urss. Il discorso del 1946 di Winston Churchill tenuto nel Missouri conteneva una metafora destinata a diventare ben presto famosa: “Una cortina di ferro è calata attraverso il continente. Dietro quella linea si trovano tutte le capitali dei vecchi stati dell’Europa centrale e orientale…”. 6800 chilometri, tanto era lunga quella Cortina di Ferro a cui si riferiva Churchill, che partiva dal nord della Finlandia per giungere sulle coste del Mar Nero. Il confine era tracciato dalle frontiere degli stati satelliti dell’ex Urss: paesi militarizzati dai sovietici e finiti sotto la guida del comunismo. L’invasione tedesca del 1941 è ancora un incubo per i russi e mai più si sarebbe dovuta ripetere. Venti anni dopo, la costruzione del Muro e la divisione della Germania. Saltano ponti e collegamenti ferroviari. Le immagini sono quelle in bianco e nero entrate nelle pagine della storia contemporanea: il soldato Schumann che abbandona il suo mitra, e salta il reticolato da est a ovest; i Vopos (appartenenti alla Volskspolizei, erano i militari di guardia alla frontiera) a lavoro per erigere le barricate; le baracche e le torrette di sorveglianza; Check Point Charlie e l’East Side Gallery, la “Striscia della morte”, i parenti lasciati e le famiglie spezzate. Una vita a metà fatta di divisioni e contese, durata per più di 28 anni. Il vento riformista, la Perestrojka e la protesta anti-regime portarono alla svolta. La “Die Wende”, come la chiamarono i tedeschi. Fu così che il 9 novembre del 1989, il Muro fu abbattuto. In questa data della memoria, il ricordo di chi ha vissuto in prima persona quegli attimi. Claudio è un italiano che in quegli anni abitava proprio in Germania e può dire…”Io C’ero”. 

“Fu una sorpresa incredibile – racconta Claudio – dopo le dieci di sera, tutta la Germania era in piedi, le telefonate da una parte all’altra tra amici: un’effervescenza incredibile. Ero a Berlino e cominciavano ad aprire il muro e a far cadere alcuni settori. Io mi sono anche trovato a dover discutere con quelli dell’altra parte, quelli che stavano dietro i vopos. Era veramente il cambio di un’epoca, l’ho sentito dentro di me”. Tra le sue cose più care, Claudio conserva ancora oggi un cimelio di quel giorno. Si tratta di un pezzo di quella Cortina di Ferro. Un pezzo unico e originale. “L’ho trovato molto simbolico – mi dice emozionato – da un amico meccanico mi sono fatto dare delle tronchesi grandi e l’ho staccato. Ero vicino al Reichstag, dove oggi c’è il palazzo del Parlamento berlinese. Ma non solo. Ho anche con me i pezzi del Muro, pezzi autentici non souvenir. Li chiamavano i “picchi del Muro”, come gli uccelli. Armati di martello andavamo a picconare il Muro e a prenderci quella parte di cemento che sapevamo che faceva parte della Storia. La gente intorno urlava: “Wir sind das Volk” che significa “Noi Siamo il Popolo”. Era il loro slogan. “Wir sind das Volk”, “Wir sind das Volk”…non potrò mai dimenticarlo”.   


Oggi la bandiera tedesca sventola ancora sulla Porta di Brandeburgo. Berlino è una città viva che rispetta la propria storia. Ha preso le distanze dal nazismo ed è vietato ogni sua qualsiasi forma di riproduzione. C’è il museo ebraico, tra i più imponenti al mondo. Struggente e immenso. Immenso come il debito che la Germania (e una parte dell’Occidente, Italia compresa) ha nei confronti di un popolo e dell’intera umanità. Sono stato allo stadio, quello che fu costruito per le olimpiadi del 1936 che dovevano mostrare tutta la potenza del popolo tedesco. Le scritte inneggianti al Furher e al mito della razza sono state rimosse completamente. In quello stadio, la nostra Italia ha vinto il suo ultimo mondiale. “Il cielo è azzurro sopra Berlino”, si urlava dopo il rigore di Fabio Grosso. Quel cielo che accoglie il campanile del “Dente Cavo”, distrutto dalla guerra, e dove si perde il Berlin, la scultura simbolo della città e simbolo dell’abbraccio tra est e ovest. La vita di tutti i giorni, oggi, è scandita dal movimento: le biciclette, i ragazzi di Alexander Platz e le comitive sotto la torre della televisione. Le strade affollate con Unter den Linden e Tauentzienstrasse. Il Kadewe, con le sue specialità gastronomiche e i  tavolini del centro con wurstel e la birra con lo sciroppo. 

La caduta del muro di Berlino, però, non ha messo fine alle cosiddette Frontiere Blindate. Le divisioni e i confini sono ancora presenti e non solo nei pensieri e nelle mentalità, ma anche sul terreno. Ci sono in Europa, come in Asia e Medio-Oriente. Senza dimenticare,  quelle di casa nostra. 

Mirko Polisano

Berlino, Il Muro. East Side Gallery.

La scultura Berlin, che simboleggia la Berlino divisa di un tempo. 

Claudio e il "suo" Muro di Berlino.

sabato 26 ottobre 2013

LIBANO DEL SUD, BAHEBAK YA LUBNAN!

L’ultima immagine resta quella dello skyline notturno di Beirut. La capitale del Medio Oriente appare con il suo luccichio di led e colori. Ha un fascino che ammalia con le sue strade e i suoi vicoli racchiusi tra moschee e centri commerciali. È un’altra vita quella di questa città: qui tocchi con mano il lusso, i vizi e la ricchezza. Beirut ti confonde e allo stesso tempo ti appare nelle sue mille contraddizioni. Il crocevia tra est e ovest, il cuore pulsante dell’islam e la roccaforte maronita della cristianità, il suk di mestieri autentici e il negozio degli Ipad che in Europa ancora non si vedono. I locali della musica assordante e gli alberghi a “cinque stelle plus”. La vita che sfreccia e le autobombe che esplodono. È il paese dove sono stati pensati i dirottamenti aerei e dove è nato un certo tipo di terrorismo che ancora fa paura all’occidente. Il viaggio è scandito dalle tappe e dai momenti. Siamo nella “terra del latte e del miele”, così come è descritta nella Bibbia. Il benvenuto te lo dà l’hostess nel suo annuncio: “spero che la crociera sia stata di vostro gradimento. La compagnia vi augura un sereno soggiorno”. <<Mica andiamo a farci la vacanza!>>, risponde un capitano, seduto dietro di noi.  All’aeroporto, occorre mettere il visto sul passaporto. L’addetto alla sicurezza vuole sapere la mia destinazione. Poi, legge i documenti e quasi non ha dubbi. “Giornalista? Devi entrare in Siria”. Non è così. Scruta l’attrezzatura e ci lascia andare. È difficile lavorare qui. Nel nome della sicurezza si nascondono le vere criticità del sud del paese. Sidone è l’enclave sunnita e la sacca della resistenza di Hezbollah e Hamal, mentre il confine è sempre presidiato e per noi è  anche blindato: divieto assoluto per foto e riprese. Per molti qui, Israele è ancora “lo stato che non c’è”. La politica e la religione hanno percorsi che si intrecciano. Su una collina, c’è la tomba dello sceicco Abbad. Venerato e amato da musulmani. In quella stessa tomba, per gli ebrei c’è il rabbino Ashi. Il sarcofago è perfettamente diviso a metà e sullo stesso marmo si trovano a pregare libanesi, palestinesi e israeliani. Neanche i reticolati fanno più la differenza. È un ritrovarsi insieme sotto il segno di una tradizione abramitica che lega islam, ebraismo e cristianità. L’ultima controffensiva di Israele è dello scorso agosto con i missili lanciati nell’area di responsabilità dell’Onu. Il dialogo non decolla, ma l’economia è più forte della guerra. Le distese dei bananeti non rendono soldi al Libano: i frutti, seppur buoni, non rispondono agli standard europei e dunque non possono essere esportati. Troppo piccoli. In compenso, ci sono le arance che, chissà per quale giro, arrivano proprio da Israele. Il Libano è un paese che ti sorprende. Qui l’aspettativa di vita è superiore di quattro volte quella del vecchio continente. Anche uno scettico come me si è dovuto arrendere alla matematica dei dati che ci sono stati forniti. La politica sta attraversando la sua fase di responsabilità. Il primo ministro Najib Mikati ha rassegnato le dimissioni, ma il parlamento ha deciso di indire le elezioni per il 2014, a novembre. È stata una scelta bipartisan da parte di tutti i partiti per consentire un sistema elettorale migliore. Noi, in Italia ancora non ci siamo riusciti.
 La terra brulla, i cedri e le vallate a strapiombo sul mare stanno per diventare l’ennesimo ricordo. Sulla nave del ritorno, una soldatessa ammira il golfo di Tyro: <<Per un attimo, mi è sembrato di vedere il mio Vesuvio>>.

È vero. Già la respiriamo: è l’aria di casa. Siamo tornati.    

Mirko Polisano

Beirut di Notte

giovedì 17 ottobre 2013

DI NUOVO IN VIAGGIO...BUONA FORTUNA!

Tra poche ore, il decollo dell’aereo. Scrivo in quelli che sono gli ultimi minuti che mi separano da questa nuova partenza. È difficile fermare un’emozione. Ogni volta, la stessa. Come se fosse un profumo, uno di quelli che incroci per strada e ti ricorda una persona cara, un momento, un istante. La radio passa un pezzo di De Gregori che dice che la valigia è già fatta e “siamo pronti a qualsiasi cosa”. Basta una canzone per farti capire come, in certi momenti della vita, siamo concentrati a dare attenzione ai particolari, alle coincidenze. Crediamo possano essere eventi fortuiti e accidentali e ognuno trova le sue spiegazioni. Un segno, un caso, il destino. Te ne accorgi solo quando tutto è in gioco. O quando ti giochi tutto. Le abitudini diventano quasi scaramanzia: la stessa persona che ti accompagna in aeroporto, la camicia blu di ogni partenza, il messaggio dal terminal in quegli attimi che sembrano solo tuoi. Scene da amarcord come quelle di uno sportivo prima di una gara, quelle di un tifoso davanti al teleschermo o allo stadio prima della partita della Roma o del Napoli, quelle di uno studente prima di ogni interrogazione e di ogni esame. Poi, quando si rompe l’equilibrio immagini che tutto possa precipitare. E, invece, capisci che il destino è altro e le circostanze fanno parte di tutto questo. Allora, intraprendi questo nuovo viaggio con una percezione diversa: magari con più leggerezza nell’andare, ma sempre con il peso della responsabilità e la consapevolezza di quanto sia importante raccontare. Storie di altre “Terre Sante”, dove la storia e la fede si sono incontrate più volte. Fenici, romani, ottomani, fino ai giorni nostri. In questo mondo contemporaneo dove la lotta per il futuro passa anche dal Vicino Oriente. Sembra tutto così distante, come il sogno di uno spiraglio di luce per questo nostro mondo in crisi. Come la speranza della pace per questi popoli. Anche la pace è lontana, ma non per questo impossibile. Proprio come accade nel racconto di Gibran, dove il soldato, volgendo lo sguardo verso oriente, disse alla sua amata: <<Guarda, il sole sta sorgendo dalle tenebre>>.

Chiudi il libro e quasi ti ritorna la fiducia. È arrivato il momento di andare. È adesso che inciampo nel calendario. L’ultima superstizione della giornata.


Speriamo che questo 17 ci porti fortuna, almeno! 

Mirko Polisano

lunedì 30 settembre 2013

MONDO, BENVENUTO A QUESTO NUOVO VIAGGIO

Pico Iyer, grande giornalista e scrittore di viaggi, racconta che <<viaggiare è un po' come essere innamorati, perchè improvvisamente su tutti i sensi  c'è scritto "acceso. Quando viaggio, soprattutto nelle grandi città, la tipica persona che incontro è una ragazza che vive a Parigi e ha il padre coreano e la madre tedesca. Appena questa ragazza incontra un ragazzo che viene da Edimburgo, e ha il padre tailandese e la madre canadese, lo riconosce come suo simile. E si rende conto che probabilmente ha più cose in comune con lui che con chiunque altro in Corea o in Germania. Così diventano amici. E poi si innamorano. Si trasferiscono a New York. O a Edimburgo. E la bambina che nasce dalla loro unione non sarà nè coreana, nè tedesca o francese o tailandese o scozzese o canadese e neanche americana, ma sarà una meravigliosa combinazione, in continua evoluzione, di tutti questi posti. Il modo in cui questa ragazza sognerà il mondo, scriverà sul mondo e penserà al mondo sarà diverso, perchè nascerà da una mescolanza senza precedenti culture. Oggi, da dove vieni è meno importante di dove vai. Ma è solo fermando il movimento che puoi capire dove andare. Ed è solo facendo un passo indietro, dalla tua vita e dal tuo mondo, che puoi vedere quello a cui tieni di più e quindi trovare casa. Il movimento è un privilegio fantastico. Ci consente di fare cose che i nostri nonni non potevano neanche sognare di fare. Ma il movimento ha senso solo se c'è una casa a cui tornare. E la casa, in fin dei conti, non è il solo posto in cui dormi. E' il posto in cui stai>>.

Benvenuto a questo nuovo viaggio. Benvenute alle altre nuove storie che staranno per arrivare e che, spero, mi parleranno di amore, di un mondo migliore, di meravigliose culture. Perchè il movimento è davvero un privilegio fantastico. E poi, si torna sempre a casa.

Mirko Polisano

mercoledì 14 agosto 2013

LAMTUMIRE, ALBANIA! UN ALTRO PEZZO DI MONDO DA RACCONTARE...

Il viaggio, stavolta, parte li' dove l'Italia finisce. Quel pezzo di Levante che appartiene alla Puglia, ma che guarda ad oriente. Bari Vecchia e' ancora identica a quella descritta da Calvino: quella che non muore mai, quel "formicaio di cortili e cappelle, di madri e di comari", che e' piu' famosa per aver dato i natali ad Antonio Cassano, che per tutto questo. Figlia anch'essa di un paese, dove il calcio totalizza luoghi e persone. I muri del quartiere Murat nascondono i segreti di un tempo che non e' passato. Un giro da queste parti e' inevitabile per chi e' in attesa al vicino porto. Passiamo davanti allo stadio della Vittoria, qui il calcio non c'entra.E nemmeno i concerti dei Rockets e dei Duran Duran, che qui hanno registrato il tutto esaurito. La struttura passera' alla storia per essere quella che, nel 1991, ha ospitato i 20 mila profughi albanesi, arrivati sulle coste pugliesi, grazie a scafisti e gommoni. Le immagini dell'emergenza ancora le ricordiamo e non sono tanto diverse da quelle che ho visto in Sicilia, fin dai primi mesi dell'esplosione della "Primavera Araba". Il tragitto e' lo stesso, ma al contrario. Il mare di notte puo' far paura, anche se e' calmo come l'Adriatico. Dopo dodici ore, siamo a Durazzo. La storia e' passata anche per questa citta' in continua crescita, non lontano da qui Giulio Cesare e Pompeo si contendevano la provincia romana dell'Illiria. E c'e' molto di noi in questa Albania. Non solo per cio' che resta delle mire espansionistiche del Duce che riusci', perfino, a far chiamare uno di questi porti con il nome di Edda, in onore della figlia, ma anche perche' il mito italiano scorre in tv e nella musica, detta le regole della moda e anche un po' quelle della cucina. In molti parlano la nostra lingua, altra circostanza dovuta all'emigrazione: tutti hanno un parente che ha tentato la fortuna nel nostro paese. Sono di piu' quelli che sono tornati. Tani e' un profugo. Mi racconta della sua esperienza su al nord. A Bergamo, per la precisione. Montava i capannoni. Lo ha fatto per nove anni. Poi, il rientro nella sua Albania. "Era un lavoro massacrante - confessa - e i soldi che guadagnavo un po' li usavo per mangiare, il resto mandavo tutto a casa. Dopo tanti sacrifici, sono potuto tornare anche io". Oggi, fa il fotografo per matrimoni e si e' aperto un internet cafe'. Ama la sua Albania e difende l'isola di Corfu': "e' nostra - ammette - non della Grecia", anche se gli ricordo che prima ancora era italiana. Anche Theodore e' rimpatriato nella sua terra. Lui e' molto giovane. Di anni ne ha 23 anni, di cui 18 passati nel nostro paese. E' un nome non comune da queste parti, gli dico. "Mio padre e' un intellettuale. Uno scrittore e un poeta. Ama la letteratura russa, ecco perche'". Dall'Italia e' scappato, Theodore: "lavoravo nel campo dell'edilizia come muratore. Il problema era il pagamento, dovevi rincorrere le persone e gli stipendi si accumulavano di mese in mese". Nella sua Tirana, invece, oggi sta bene. Grazie al suo italiano imparato a Reggio Emilia, e' impiegato in un call center per conto di una societa' di Torino, che qui ha spostato le sue basi operative, sicuramente a fronte di un risparmio di tasse. L'Albania e' un paese dalle tante speranze, dove il nazionalismo e' cosi' forte che non mancano palazzi e negozi, uffici e abitazioni che non espongano la bandiera con orgoglio. L'aquila a due teste e' diventata anche un brand commerciale: non bastava tatuata con fierezza su schiene e braccia, ora la puoi trovare su magliette e scarpe. Su cappelli e palloni da calcio. E' il simbolo di una nazione che non dimentica i suoi eroi, Schanneberg sopra tutti. L'Albania e' un paese dalle tradizioni antiche, dove la superstizione e' ancora forte ed e' per questo che ai balconi non possono mancare teste d'aglio e bambole appese. La sera l'elettricita' manca e l'acqua non e' ancora potabile, ma la fiducia e' tanta. Quella necessaria per ripartire, dopo venti anni di uno solo al governo. Sali Berisha, capo del centro-destra nazionale, ha perso le elezioni del giugno scorso.E' stato proprio lui a dominare la scena della politica albanese post-comunnista dagli inizi degli anni '90 ad oggi, ed oggi e' la gente ad aver scelto. Ora, le aspettative sono tutte per Edi Rama, che mira a portare l'Albania in Europa, anche se Bruxelles non e' proprio convinta. Qui, i bambini giocano ancora per strada, con qualche pallone rimediato.

Guardi l'orizzonte e sogni l'Italia come l'hanno sognata in tanti da queste parti. Non e' poi cosi' lontana. L'ultima onda si infrange sullo scoglio. Il mare e' lo stesso che bagna la nostra costa.

"Quel mare che non ha paese", come diceva Giovanni Verga, e che e' di tutti quelli che "lo stanno ad ascoltare". Al di qua o al di la' del Mediterraneo. 



Mirko Polisano




Albania, la bandiera con l'aquila bicipite sui palazzi





Albania, bambole appese ai balconi per superstizione.

mercoledì 31 luglio 2013

ISLAM E EBRAISMO, QUANDO LA PACE E' POSSIBILE...

"Sa come rinascere dalle ceneri, il mio Paese. Forse avete dimenticato che lui è il creatore della fenice?”

Mushil Al Ramni  è un intellettuale iracheno. Si è schierato senza mezzi termini contro l’inferno della guerra. Argomento più che mai di attualità, oggi, con la Siria ancora in crisi. I percorsi di pacificazione sono sempre lunghi e tortuosi. Specialmente nel vicino oriente, dove ci sono tanti ostacoli e, soprattutto, muri che, nel nome di una "Terra Santa", separano musulmani da ebrei, ma si possono scorgere anche alcuni segnali incoraggianti. Ne parliamo con l’Imam della comunità musulmana di Roma. Arriviamo alla Grande Moschea della Capitale, la più grande di tutta Europa, opera dell’architetto Paolo Portoghesi, che sorge tra i Parioli e l’Acqua Cetosa. Il centro, voluto fortemente, dall’allora governo Andreotti in accordo con l’Arabia Saudita, è luogo di preghiera, ma anche di incontro e di studio. Punto di unione di culture e di mondi lontani, ma in realtà solo apparentemente. L’entrata centrale richiama il disegno di piazza del Campidoglio a Roma, eccolo un primo segnale di integrazione e convivenza tra popoli e paesi. Ahmed El Sakka è l' Imam della Moschea di Roma. Parla anche di rispetto e convivenza l’Imam e di rapporto con il popolo italiano. "La libertà di religione è fondamentale - dice - e i tanti centri islamici aperti in tutta Italia ne sono la testimonianza di un paese accogliente e aperto al dialogo"Sullo stesso principio di rispetto inter-religioso punta la comunità ebraica di Roma. Anche la Sinagoga che sorge all’Isola Tiberina è tra i Tempi Maggiori più grandi d’Europa, visibile da ogni punto panoramico della città. 

La storia della Sinagoga è fatta di due visite che segnano il passo con i tempi: quella di Giovanni Paolo II nel 1986 e quella del suo successore Benedetto XVI nel gennaio di tre anni fa. Ma è fatta anche di un attentato dell’ottobre del 1982 in cui, per mano di un commando palestinese, morì un bambino di due anni e rimasero ferite 37 persone. Per gli ebrei romani il Tempio rappresenta, oltre che un luogo di preghiera, un fondamentale punto di riferimento culturale ed ospita il Museo Ebraico di Roma. Incontriamo Claudio Procaccia, il direttore dei Beni Culturali del Museo e con lui parliamo di storia e di pace. Shalom, in ebraico."Gerusalemme - afferma Procaccia - ha la stessa radice di Shalom, pace, appunto. Questo significa che per l'ebraismo, l'elemento di pacificazione tra i popoli è un elemento chiave. Come è chiave l'elemento della solidarietà". 

Dio ci ha dato molte culture, molti linguaggi, ma un solo mondo dove vivere insieme. Un mondo che diventa sempre più piccolo, ogni giorno. La pace non può neanche essere qualcosa di imposto attraverso organismi internazionali. Anche qui, al massimo, significherebbe solo coesistenza obbligata. La pace vera è, invece, altra cosa, è tolleranza, è soprattutto RISPETTO. 

Come diceva Kant, la Pace non può essere semplicemente mancanza di guerra.

Mirko Polisano

giovedì 27 giugno 2013

CRONACHE DAL MONDO, TERMINA LA SECONDA EDIZIONE...MA LA MISSIONE CONTINUA

Siamo arrivati alla conclusione di queste “Storie” che ci hanno accompagnato per un anno intero. Siamo arrivati al capolinea di questo viaggio, che ci ha fatto girare tanto, incontrare persone, stringere una mano, accennare a un sorriso con quello spirito da "uomini buoni", che fa parte di noi. Cercando di comprendere, così gli altri, le loro intenzioni, la loro fede, i loro interessi e le loro tragedie. E di diventare subito, fin dal primo momento, parte del loro destino…

Siamo partiti dalla calda e sterminata Tunisia, a pochi mesi dalla Primavera Araba che un vento di cambiamento avrebbe dovuto portare. Il Magreb, i suoi tramonti, i colori del mercato e quel mare navigato da Romani, Saraceni e Cartaginesi…i giovani e la loro voglia di cambiamento…

I Balcani e le terre divise. Ortodossi e musulmani che parlano di rispetto e una scuola cattolica, dove suor Amanda insegna tutte le materie…tranne una: religione…

In Bosnia, dove la speranza e la fede non ti lasciano. Esistono davvero posti nel mondo dove soli non si è mai. Medjugorie è uno di questi. Un luogo di pace. Una collina impervia, fatta di spiritualità, emozioni e amore. Come quello di Francesco e Maria, la prima volta insieme a pregare…di solito si alternavano di anno in anno… colpa della crisi…Davide sottratto alla droga e oggi al servizio di una comunità religiosa. E poi c’è Eugenio… che adesso ci guarda da lassù…

Siamo andati tra le rovine de L’Aquila e quel che resta di una città abbattuta dal terremoto. Poi la gente, che ha pagato "con i propri debiti e non con i propri soldi": Marzia, Maurizio e Leò, primo e unico bar aperto dopo il sisma. Ivana, 87 anni e 8 figli. Vive in una New Town, una di quelle volute da Berlusconi, ma vuole tornare a casa sua. E poi, quel biglietto, che forse è ancora lì. Forse, no. 

Siamo volati al Belfast per raccontare la guerra dimenticata. A tu per tu con un ex combattente dell’Ira, 57 anni di cui 22 in carcere e siamo stati in mezzo alla strada a giocare a pallone con i figli di questa pace imperfetta. Arriva Bono e gli U2: “Per quanto tempo ancora dovremmo cantare questa canzone?”.

La storia che ti passa davanti: con Benedetto XVI che va via e la nostalgia inenarrabile di Piazza San Pietro. La stessa piazza che diventa un tripudio di colori e suoni nel giorno del primo angelus di Papa Francesco

La neve di Birkenau, nel giorno della Memoria. 68 anni dopo… e l’incontro con quegli occhi che non potrò mai dimenticare. Me lo disse sotto la neve, con il freddo…un biglietto scritto in cirillico che ancora conservo. E’ il suo appello: bisogna continuare a raccontare.

Eccolo, il messaggio o il destino che ritorna. Cambiare direttamente le cose, no; influire sulle coscienze degli uomini, quello si.

Al di là di ogni luogo, è questa la missione che deve continuare…

 Mirko Polisano


“Niente è brutto come la guerra…”


E. Hemingway, Addio alle Armi.



venerdì 31 maggio 2013

AFGHANISTAN, ARRIVA AFGHAN WEST: VOCI DAI VILLAGGI

E' stato presentato anche alla recente edizione della Fiera del Libro di Torino, presso lo stand del Ministero della Difesa, il libro "AFGHAN WEST" di Katiuscia Laneri, Elisabetta Loi e Samantha Viva. Tre reporter e tre donne che hanno del loro lavoro una vera e propria "missione". Senza indugi e con qualche brivido di emozione che solo un mestiere come questo può regalarti sono partite. Destinazione: Afhganistan. L'inferno del mondo. Via, alla scoperta di un paese bello e difficile che sta vivendo una sua nuova fase. Il processo di transizione che è in atto in Afghanistan è di assoluta rilevanza storica. Partendo da questa considerazione, in occasione di un media tour di una decina di giorni, svoltosi tra Herat, Shindand e Bala Boluk, un gruppo di giornaliste hanno pensato bene di immortalarlo in un quadro più ampio, in maniera da poter lasciare una traccia tangibile che non vada perduta nelle pieghe, a volte marginali, di un articolo di cronaca.
A partire dalle interviste raccolte tra i militari della missione ISAF, tra gli abitanti dei villaggi, tra i governatori e i generali afgani, nasce l'idea di un libro, che possa raccontare l'Afghanistan di oggi e cercare di leggere i risvolti che l'apporto e il contributo dei militari italiani, soprattutto nella parte ovest, avranno sul nuovo volto dell'Afghanistan di domani. Oltre alla parte testuale, il progetto che le giornaliste Samantha Viva, Katiuscia Laneri e la fotoreporter Elisabetta Loi hanno realizzato, comprende una vasta raccolta di foto e un video, per documentare in maniera completa e non univoca, ma avvalendosi di tre diversi livelli comunicativi, un viaggio in un universo meno noto di un paese che vive ancora sotto l'etichetta di avamposto dei Talebani.
Non si sa niente della realtà del posto e delle sue difficoltà, di come la gente stia cercando di affrancarsi dalla criminalità, dall'oppio, dai pregiudizi e dall'isolamento. Il messaggio che a volte traspare dalle numerose attività che i nostri militari svolgono, in un paese così contraddittorio e complesso e di quanto il suo popolo sia legato al nostro, merita più attenzione, soprattutto visto il riconoscimento del cosiddetto "sistema Italia" quale modus operandi che ha fatto scuola e ha fornito competenze e suggerimenti indispensabili per far sì che nel 2014, con la fine della missione ISAF, o il suo molto più probabile ridimensionamento nel numero e nelle funzioni, il popolo afgano sia finalmente indipendente.
Il lungo processo che è ormai giunto alla sua quarta fase ha visto anche il riassetto delle capacità militari e delle forze locali di polizia afgane, che ogni giorno acquistano sicurezza e capacità, grazie all'affiancamento costante dei nostri reparti specializzati come i MAT e i PAT, per non parlare delle numerosi innovazioni introdotte in ambito non solo strategico ma anche culturale e sociale, primo fra tutti l'ingresso delle donne nell'esercito.
Anche la battaglia per i diritti delle donne merita uno spazio adeguato per non incorrere in facili qualunquismi e approssimazioni occidentaliste ad un fenomeno che rientra in un universo complesso come quello del mondo islamico.
Tutti questi spunti meritano quindi una riflessione più ampia della pagina di un quotidiano e vengono forniti, al lettore, nell'ottica di un quadro di comprensione più ampio, senza la pretesa di raccontare l'Afghanistan in un centinaio di pagine o con occhio da studioso, ma con la volontà di fornire, a chi sa poco o nulla dell'argomento, il resoconto della gente che vive il suo contesto con partecipazione e consapevolezza.




lunedì 15 aprile 2013

INDIA: CASO MARO', LUCI SPENTE AL COLOSSEO


C'è una storia da raccontare oggi, è la storia di due cittadini italiani prima ancora di due militari.

É la storia di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone.

E’ il 15 febbraio 2012 e la petroliera italiana Enrica Lexie viaggia al largo della costa del Kerala, India sud-occidentale, in rotta verso l’Egitto. A bordo ci sono 34 persone, tra cui sei marò del Reggimento San Marco col compito di proteggere l’imbarcazione dagli assalti dei pirati: un rischio concreto, lungo la rotta che passa per le acque della Somalia. Poco lontano, il peschereccio indiano St. Antony trasporta 11 persone. Intorno alle 16.30 si verifica l’incidente: l’Enrica Lexie è convinta di essere sotto un attacco pirata, i marò sparano contro la St. Antony e uccidono Ajesh Pinky (25 anni) e Selestian Valentine (45 anni), due membri dell’equipaggio. La St. Antony riporta l’incidente alla guardia costiera del distretto di Kollam che subito contatta via radio l’Enrica Lexie, chiedendo se fosse stata coinvolta in un attacco pirata. Dall’Enrica Lexie confermano e viene chiesto loro di attraccare al porto di Kochi.

La Marina Italiana ordina ad Umberto Vitelli, capitano della Enrica Lexie, di non dirigersi verso il porto e di non far scendere a terra i militari italiani. Il capitano – che è un civile e risponde agli ordini dell’armatore, non dell’esercito – asseconda invece le richieste delle autorità indiane. La notte del 15 febbraio, sui corpi delle due vittime viene effettuata l’autopsia. Il 17 mattina vengono entrambi sepolti. Il 19 febbraio Massimiliano Latorre e Salvatore Girone vengono arrestati con l’accusa di omicidio. La Corte di Kollam dispone che i due militari non finiscano in un normale carcere ma siano tenuti in custodia presso una “guesthouse” della Cisf (Central Industrial Security Force), il corpo di polizia indiano dedito alla protezione di infrastrutture industriali e potenziali obiettivi terroristici.
Ora invece questa la beffa:

Il 22 febbraio 2013 la corte suprema indiana concede ai due fucilieri di tornare in Patria per quattro settimane per le elezioni. L'11 marzo la Farnesina rende nota la decisione di non far rientrare i due soldati in India. Decisione presa in accordo tra il ministero della difesa e della giustizia in coordinamento con la presidenza del consiglio. Ecco le motivazioni della Farnesina: “L'Italia ha sempre ritenuto che la condotta delle autorità indiane violasse gli obbloghi di diritto internazionale gravanti sull'India” in particolar modo “il principio dell'immunità dalla giurisdizione degli organi della Stato straniero”.

Dopo l'annuncio in India scoppia il caos e gli indiani decidono di trattenere l'ambasciatore Italiano, Daniele Mancini, con il divieto di rientrare in Italia.
Poi il passo indietro e il rientro in India dei due Marò.
Vorrei innanzitutto evidenziare come non sia possibile revocare l'immunità diplomatica garantita dall'articolo 29 della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche, del 1961. I diplomatici hanno libertà di movimento e nessun atto di coercizione può essere esercitato nei loro confronti.
L'intervento dell'India viola anche l'articolo 44 che, come tutte le immunità diplomatiche, ha la funzione di evitare che gli agenti diplomatici vengano ritenuti personalmente responsabili delle azioni dei rispettivi governi.
Una situazione incomprensibile. Uno Stato alla sbando. Un governo che non è riuscito ad intavolare né una linea coerente né una trattativa.
Dov'è lo Stato Italiano? Possibile che diventiamo prede diplomatiche di Paesi come l'India? Dov'è L'Unione Europea? Sempre in prima linea per gli interessi franco-tedeschi e incapace di prendere la difesa dell'Italia?
E dov'è la NATO? Dove sono tutti quei bei diplomatici e politici che mandano i nostri giovani in discutibili azioni di pace e brandiscono all'occasione accordi internazionali?
La mia memoria storica torna inevitabilmente ad un fatto accaduto in Italia parecchi anni fa.
Spero qualcuno si ricordi della strage del Cermis? Spero qualcuno si ricordi di quel lontano 3 febbraio 1998 e di quei militari americani che per “gioco” hanno compiuto una strage uccidendo 19 persone.
E spero qualcuno infine si ricordi se il nostro governo ha avuto la forza diplomatica di giudicare quei soldati?
No, oggi come allora il nostro governo si è piegato in modo disonorevole. Noi non abbiamo mai saputo neppure i nomi di quei militari americani.
Questa è giustizia?
Oggi l'India in preda ad un fermento nazionalista con le elezioni alle porte si permette di violare ripetutamente il diritto internazionale e il nostro Paese non è in grado neanche di rispondere diplomaticamente a queste intimidazioni.
L'altra sera il sindaco Alemanno ha organizzato una manifestazione bipartisan ai piedi del Colosseo, una manifestazione per urlare che Noi Italiani ci vergogniamo di questo governo, che Noi cittadini Italiani vogliamo un governo che sia in grado di tutelare i nostri cittadini all'estero di difendere i nostri soldati in missione per il mondo.

Purtroppo la manifestazione, come ogni cosa in Italia, è stata strumentalizzata da più parti, prima la soprintendenza ostacolando lo svolgimento poi la sinistra anche qui ambigua su che parti prendere, ha preferito non presentarsi e criticare l'evento.

Questa divisione di intenti forse non è altro che la fedele riproduzione dei veri interessi che oggi sovrastano anche diplomaticamente oltre che politicamente il paese.

Ho visto un tricolore sventolare, ho visto le immagini dei due Marò riprodotte sul Colosseo, ho visto il Colosseo, per un attimo mi sono sentito Italiano per un attimo ho sperato che potessimo tornare a fare delle battaglie uniti e che l'interesse nazionale fosse più alto di ogni altro interesse.

Il Colosseo spento per ricordare la vicenda dei due fucilieri di Marina, attualmente sequestrati in India.



Fabio Piccioni

sabato 30 marzo 2013

AFGHANISTAN, PRESENTATO IL CALENDARIO DELL'ASSOCIAZIONE DEI CADUTI


“Quanta strada deve percorrere un uomo per considerarsi un uomo…?”

L’inchiostro è quello di un pennarello indelebile, la scritta è posta sull’elmetto, primo compagno di viaggio in questa terra, dove pace e guerra si incontrano. Non ti aspetti di trovare una citazione di Bob Dylan  sul telo mimetico…è il mondo di giovani, lontano da quello di altri loro coetanei. E lontano anche da un immaginario comune e qualunquista che li vede del sud, ignoranti e prezzolati. 

Hanno poco più di vent’anni, e non si tirano indietro davanti alle responsabilità. Tra polvere e sabbia, sorvegliano una torretta; di notte non hanno tempo per godersi il panorama stellato dell’Afghanistan, e se quel cielo potesse parlare ti racconterebbe meglio di loro. Delle avversità di questo deserto, dove fa caldo e l’acqua per tenerla fresca la devi nascondere. Ti direbbe delle tende piccole che sono un riparo dal cocente sole e che in certi posti il cibo è scaricato dagli aerei, perché i rifornimenti non arrivano.

Ti parlerebbe dei loro anfibi chiari e impolverati, dei bauli neri e di plastica, degli zaini tattici e delle mostrine con il gruppo Zero positivo. Poi, si parte. All’arrivo in aeroporto, mai voltarsi indietro e il saluto è sempre veloce. Gli occhi lucidi, potrebbero tradire l’emozione e anche la paura. Perché in Afghanistan la paura, c’è.

Giovani pronti ad indossare giubbetto e armi e a salire sul Lince, andando incontro al loro destino che pur conoscendolo, non sanno quale sia. Il pensiero vola avanti, ma non possono fare a meno di preoccuparsi. Già, come in una sorta di paradosso vivente, sono loro a preoccuparsi per chi sta a casa. Così internet diventa un tranquillante, e skype il rimedio alla lontananza. Quando il collegamento prende e il segnale non arriva disturbato. Quando si può una telefonata…e la risposta è sempre uguale: “Mamma.Qui, tutto bene!”.

In queste pagine, ci sono questi giovani. Che tifano Milan, e Napoli. Lazio e Palermo…quasi ad unire l’Italia sotto un unico modo di essere: quello della migliore gioventù. Che non ti canta solo Bob Dylan, ma ti cita Confucio, Gandhi e Nietzche. Che studia la Bibbia e che conosce il Vangelo. Una generazione che sarà anche figlia di un certo benessere, ma che ha vissuto i passi cruciali della storia contemporanea. Abbiamo visto cadere il Muro di Berlino e scoprire la guerra con la crisi del Kuwait e le stragi dell’ex Jugolsavia. Poi, chi l’avrebbe detto che quell’11 settembre saremmo andati a farla anche la guerra. In Iraq e in Afghanistan. Da queste terre, alcuni non sono tornati. Il pensiero è per loro. Ma è anche per chi c’è e continua un’altra “missione”...

Quella che i loro figli, mariti e fratelli…hanno lasciato in sospeso.  

Mirko Polisano



E' stato presentato lo scorso febbraio il calendario "Afghanistan, domani...però domani!", curato dall'Associazione Caduti di Guerra in Tempo di Pace. Il filmato, che ha superato le oltre 2.200 visualizzazioni in meno di un mese, è disponibile collegandosi a questo link: 


Militari italiani in missione all'estero


      

venerdì 8 marzo 2013

ISLAM, 8 MARZO PER LE SORELLE MUSULMANE


Da Shahrazad a Bochra Belhaj Hmeda. L’onirica protagonista dei racconti de “Le Mille e una Notte” e la presidente del movimento femminista a Tunisi: storie di donne con fascino e intelligenza.

La forte percezione della sottomissione delle donne musulmane è stato uno degli argomenti a sostegno delle invasioni in Iraq e in Afghanistan. Sicurezza e libertà erano gli imperativi primari: ripulire il mondo dalle cellule del terrore e dai loro fiancheggiatori e diffondere democrazia e libertà. In un discorso radiofonico, nel novembre del 2001, l’allora first lady Laura Bush disse: “la lotta contro il terrorismo è anche la lotta a favore dei diritti e della dignità delle donne”. Gli americani, e i Bush soprattutto, sono da sempre dei maestri nella propaganda, specie se di guerra. Con questo, lungi da noi pensare che non ci siano problemi legati all’emancipazione femminile in alcuni paesi di matrice islamica, ma non è mai opportuno parlare per luoghi comuni e approssimazione. La tematica è delicata, come se fosse un viaggio importante, alla scoperta  di un mondo lontano che va a scardinare gli stereotipi di un ordine sociale repressivo, e a raccontare altre donne.

Bochra Belhaj Hmida,
presidente dell'associazione
Donne democratiche tunisine
Baby Boom. È un film di Hollywood del 1987. La protagonista, una donna in carriera che diventa ragazza-madre, sottopone a un colloquio diverse baby-sitter, sperando di trovare quella giusta per sua figlia. Tra queste, una ragazza è coperta da un lungo velo nero, che dice con un forte accento arabo: “le insegnerò a rispettare il maschio. Parlerà solo le rivolgono la parola. Non ho bisogno di un letto, preferisco dormire sul pavimento”. È l’immagine che arriva anche al mondo occidentale, con la stessa proporzione abbiamo quella  che fa di un italiano all’estero solo pizza, mandolino e mafia. Se volessimo dare un volto a questa idea diversa, potrebbe essere quello di Suaad Salih, la cui area di competenza è il fiqh, il diritto islamico. Salih è una giurista islamica e docente di diritto all’università di Al-Azhar, tra i più importanti centri di insegnamento nell’Islam sunnita. È stata la prima preside di facoltà, è scrittrice che affronta temi che vanno dal diritto di famiglia ai diritti femminili. È tra le ospiti fisse di Al-Jazeera e predica senza timidezza l’Islam, diffondendo il suo messaggio, diventato la sua dottrina: “L’Islam è semplice e tiene le donne in grande considerazione”. Ci sono anche donne come Salwa Riffat, egiziana di più di sessant’anni laureata in ingegneria aerospaziale all’università de Il Cairo. È insegnante anche lei: “le donne della mia generazione erano l’avanguardia di una nuova era in Egitto – ha spiegato più volte – oggi non lo si nota quasi più: le università in Egitto pullulano di donne che spesso sono più numerose degli uomini e, spesso, più bravi di questi nelle loro discipline”. Alla facoltà di medicina de Il Cairo, gli studenti che tengono il discorso di commiato durante la cerimonia di laurea, vale a dire i più meritevoli, sono quasi sempre donne. Questi casi sono tutt’altro che unici.

Salona Sigir,
Giornalista 
Maledetta Primavera. E’ stata salutata da tutti come la rivoluzione del cambiamento. Termine improprio rivoluzione, ma che meglio esplica il vento di novità che avrebbe dovuto soffiare sulle piane del Maghreb. Con il passare del tempo, il caos e la confusione hanno preso il sopravvento e ora in Tunisia e in Egitto governano estremisti e partiti che gridano alle masse. La Marsa è una cittadina balneare alle porte di Tunisi, da qui è partita un’altra rivoluzione: quella femminista per i diritti delle donne. Bochra Belhaj Hmida ne è la portavoce. È un avvocato della Corte di Cassazione di Tunisi e presidente dell’associazione “Donne democratiche tunisine”. Tra le prime a rivendicare il ruolo delle donne nella politica e a combattere la prostituzione e l’emarginazione femminile. Sul velo, la sua posizione è fin troppo aperta: “indossarlo, è una scelta personale”.  La scelta di non portarlo è stata fatta anche da Salona Sigir, giornalista dei programmi italiani della radio di stato tunisina. Parla italiano e francese, ascolta la musica di Morandi, Battisti e Baglioni e cura le notizie del telegiornale. Parlare con lei è come gettare uno spiraglio di luce sulle donne musulmane. “Siamo cambiati dentro – mi racconta Salona, mentre mi ospita nel suo programma – sembra respirare un’aria nuova”. Poi, aggiunge: “Io devo essere ottimista. Noi donne abbiamo lottato e lavorato molto, con molti sacrifici per raggiungere una nostra indipendenza, per andare a scuola o all’università. Abbiamo combattuto per avere una nostra libertà e dobbiamo continuare a farlo, perché una battaglia non è mai vinta. Le donne devono insieme essere solidali: è l’unico modo per sconfiggere l’estremismo”.

L’Islam che non ti aspetti. Le ho incontrate sul treno che da Pec arriva a Pristina , sulle note di “Voglio vederti danzare” di Battiato che parla di melodie e divergenze tra Oriente e Occidente. Besa e Florentina sono giovani. A 24 anni, hanno sofferto la guerra dei Balcani. Indossano jeans stretti e tacchi alti. Sono musulmane…ma nessuno lo direbbe. “Il nostro è un paese bellissimo”, afferma Florentina che utilizza i social network e ascolta tanta musica. Lavora in parlamento come interprete, mentre Besa è insegnante.  Dafina, invece, di anni ne ha 25 e gestisce il Museo delle Tradizioni a Pristina. Mi colpiscono i suoi orecchini con il segno della pace. “Non so se ci sarà mai la pace – mi confida – ma credo nella possibile convivenza e nel rispetto delle persone”. Florentina, Besa e Dafina, sono musulmane e di famiglia islamica. Rappresentano davvero un nuovo modo di essere e un altro volto di una religione poco conosciuta da chi non la pratica.       

 Dafina, lavora al museo delle tradizioni a Pristina (Kosovo)
L’analisi resta quella di un argomento che tocca tanti temi: dalla religione, alla sfera intima e personale. Dai diritti, alle scelte obbligate o condizionate. Il compito di chi scrive e informa resta quello di non fermarsi alle apparenze e ai luoghi comuni. E neanche di minimizzare situazioni complesse e gravi. Sono argomenti che colpiscono, nel nome dei quali sono state movimentate guerre e nutriti pregiudizi. Sono stati commessi omicidi e condanne capitali. Sakineh in Iran è diventata l’emblema e il simbolo della difesa delle donne e dei diritti umani. In questo 8 marzo, il pensiero va a lei, sperando riesca ad essere liberata. Come nelle “Mille e una Notte”. Magari arriverà anche per lei, Shahrazad e salverà lei e chissà quante altre donne, grazie al fascino della sua intelligenza. 

“Tu sei la salvatrice di tutte le fanciulle, che avrebbero dovuto essere sacrificate al mio giusto risentimento”.

Speriamo che le parole conclusive dell’opera più conosciuta della letteratura araba possano essere anche il finale di questa che una favola…non è.  


Mirko Polisano

lunedì 4 febbraio 2013

AFGHANISTAN, RIPRENDIAMOCI LA MEMORIA

“Quando la vita chiama, il cuore sia pronto a partire e ricominciare…per offrirsi sereno e valoroso ad altri”Apri un libro qualsiasi, una pagina qualsiasi in un giorno qualsiasi e questi versi di Hermann Hesse sembrano volerti dire: falla iniziare così questa storia. 

Una storia che hai difficoltà a raccontare perché ormai fa parte di te. Il cuore è quello di David Tobini, paracadutista dell’esercito italiano che si è offerto sereno e valoroso ad altri. Non importa chi questi altri siano...ha importanza il gesto, e chi ormai deve sapere, già sa. Ma c’è un altro cuore quello di mamma Annarita, che deve essere pronto a partire e ricominciare ogni volta che si incontra la burocrazia, il pressapochismo e l’indifferenza. Ti accorgi, ogni giorno che passa, che la guerra non è solo laggiù in Afghanistan, ma anche qui a Roma. Proprio in questi giorni l’amministrazione di Roma Capitale è corsa ai ripari per sanare una svista, clamorosa e indegna. La decisione della commissione toponomastica di non intitolare un parco alla memoria di David Tobini, caduto in Afghanistan nel 2011, figlio di Annarita e di questa Roma, non è andata giù non solo alla famiglia, ma, per fortuna, anche a tante persone che di girarsi dall’altra parte, anche stavolta, non se la sono sentita. Tra i primi ad alzare la voce, l’Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia, e tanti altri che David neanche lo conoscevano, ma che hanno deciso di non abbassare la testa. Così come le istituzioni, anche le stesse del comune di Roma, che hanno ribadito l’assurdità dei fatti, e allo stesso tempo ne hanno preso le distanze, precisando che la commissione, oltre ad essere costituita da personalità esterne all'amministrazione, ha solo una funzione consultiva. Ad Annarita tutto questo poco interessa, perché la sfiducia è tanta e trovarsi di fronte all’ennesimo no per un’opera che dai quasi per scontato e, che peraltro potrebbe anche non essere a carico della pubblica amministrazione, ti getta in un’ondata di sconforto. Ha parlato di vergogna, Annarita, che, credo, qualcuno abbia provato leggendo questa storia. Un atto dovuto in uno stato in cui il dovere non si sa più cosa sia. “L’Italia è un paese dalla memoria corta”, la frase riecheggia ogni tanto. Ma non possiamo più permettercelo, non possiamo più permettere tutto questo. Dobbiamo avere il rispetto di quella memoria che proprio perché è tale non può essere certo parente della dimenticanza. Né, possiamo permettere che ci si stringe accanto al dolore dell’Afghanistan il tempo giusto per concedere alle istituzioni la triste passerella e il giorno del lutto cittadino. Ancora peggio, quando altri accostano il dolore dell’Afghanistan a compensi e stipendi. Ricordiamoci sempre che i nostri parlamentari guadagnano molto di più a spese nostre e di certo non rischiano la vita. Lascio perdere la questione del terrorismo internazionale: Bin Laden non c’è più…eppure stiamo ancora lì.

Questa storia avrà tra poco il suo epilogo: la giunta capitolina ha capito l’errore e ha dato l’autorizzazione al parco David Tobini, che presto si farà.

Ci saremo tutti quel giorno, orgogliosi di aver fatto prevalere il nostro diritto di cittadini, di uomini e donne che hanno ancora la forza di credere nelle loro idee. Ci sarà Annarita, con il basco amaranto in mano e tutti noi accanto, con gli occhi un po’ lucidi ma con la certezza di aver fatto la cosa migliore.

Ci verrà a trovare anche Confucio, da lassù e ci farà tornare alla mente una delle sue frasi più belle: Vedere ciò che è giusto e non farlo...è mancanza di coraggio".   


Con Annarita, mamma del Caporal Maggiore  David  Tobini



Mirko Polisano

giovedì 31 gennaio 2013

OSWIECIM, LA TERRA DEI MARTIRI


Ci sarebbe voluto ancora molto però perché si potesse farne memoria, perché l’inimmaginabile prendesse forma agli occhi di tutti, perché la volontà di tutti di guardare avanti si piegasse al ricordo dei morti e del dolore. Pochi, tornati cominciarono a scrivere ciò che avevano visto. Sarebbero divenuti i testimoni, protagonisti di una tragedia vissuta in prima persona. Il primo tassello per ricostruire e raccontare questa storia che, oggi, pur a tanti anni di distanza, non vogliamo e non possiamo dimenticare perché ha segnato per sempre il novecento e le generazioni che sono venute dopo.  “Ad Auschwitz tante persone, ma solo un grande silenzio”, cantava Francesco Guccini. Anche i passi segnati dagli anfibi sulla neve bianca hanno una immagine tutta loro. Qui, nel campo di concentramento più grande del mondo, dove le orme dei militari tedeschi hanno segnato la peggiore strada nel cammino dell’umanità, si resta storditi dall’orrore. Devi patire il freddo di gennaio per capire la sofferenza di chi, con addosso solo un pigiama a strisce, ha trascorso qui il suo inferno. La neve è alta. Il cielo grigio. Pensiamo che, forse, esistano luoghi, dove la primavera non arriva mai: la coltre di dolore è troppo fitta, affinchè i raggi del sole possano scalfirla. La storia studiata sui banchi di scuola ti appare davanti in tutta la sua drammaticità. Le deportazioni di ebrei, contestatori politici, intellettuali, zingari e omosessuali sono la pagina più brutta di quei libri. Auschwitz è un ex caserma, i blocchi sono in cemento e al loro interno trovarono la morte circa 70 mila persone. Un posto squassante di emozioni. Gli oggetti sono triste ricordo dei fatti, ma anche delle persone. Gli occhiali, così tanti, così uguali…quasi a indicare un tempo e un modo di essere. Le protesi delle persone disabili: gambe, stampelle, busti…oggi svelano il risvolto più amaro. Nessuno di loro ce l’ha potuta fare. Selezionati subito e inviati nelle camere a gas. Dove dalle docce usciva lo Zyklon B, disinfettante usato per uccidere…

Le valigie, anch’esse tante. Fatte di corsa, davanti ai militari delle SS. Nella parte frontale, il nome scritto a caratteri grandi…per non perderle…perché dentro c’è quello che serve. Così sono stati caricati sui carri bestiame il signor Pasternack, Petr Eisler e Klara e Sara, magari sorelle, magari madre e figlia. Dieci minuti per prendere tutto. Poche cose, ma indispensabili. Le donne: pentole e termos per preparare un pasto caldo per i figli; gli uomini spazzole e pennelli per la barba. Ti raccontano che le mamme chiedevano di andare nelle cucine per preparare da mangiare ai bambini che avevano fame… 


Da una parte non vorremmo raccontare tutto questo, troppo crudele per descriverlo. Come se entrassimo troppo nell’intimo, nel personale di un uomo, di un individuo. Ma abbiamo il dovere di farlo, perché non possiamo raccontare tutto questo, senza far capire e vedere tutto questo. Tanto altro, per rispetto, non possiamo mostrarvi. Capelli, vestiti…poi, le scarpe a migliaia…comprate chissà per quale occasione e finite per essere indossate nell’ultimo giorno di libertà.

Essere nel Giorno della Memoria a Auschwitz è quasi un privilegio che questo lavoro ti concede. Riesci a comprendere l’inspiegabile, l’inaccettabile, e l’assurdo. In tutto il mondo, si celebra questa giornata, ma qui ad Auschwitz ha tutto un sapore diverso. Una composta deposizione di fiori è molto di più di ciò che in realtà è. È la semplicità del dolore. Siamo nella piazza centrale, tra ex combattenti, militari e il sindaco che è deciso e categorico: “Questa città ha una sua identità – mi dice il primo cittadino polacco- per tutti è Auschwitz, con il nome tedesco ma siamo in Polonia e il suo nome è Oswiecim. Abbiamo una nostra comunità, ma dobbiamo sottostare al passo della storia, che non possiamo dimenticare”.

Oswiecim è una città tradita dal suo passato, l’occupazione tedesca l’ha trasformata in Auschwitz e la resa celebre nel peggiore dei modi agli occhi dell’intero pianeta. Il “campo madre” è ancora un brulicare di turisti, che si fermano a Oswiecim, ma che da qui scappano, con le lacrime agli occhi. A Oswiecim i turisti non dormono, magari preferiscono la vicina Cracovia bella e innevata anch’essa, che sembra uscita da una favola medioevale e come in tutte le favole ci sono i buoni e i cattivi…e Oswiecim al solo suono fa paura…

Auschwitz, Il Cortile della Morte


Mirko Polisano