domenica 18 dicembre 2011

AFGHANISTAN, IL SENSO DELLE PAROLE


Con l'Ambasciatore Afghano in Italia S.E.Musa M.Maroofi

Cercare di trovare un senso alle parole. Un contenuto che potesse racchiudere speranza, pace, solidarietà, fiducia. Senza nessuna pretesa, andare alla continua ricerca di volti da associare, immagini a cui poter fare riferimento, pensieri che trovano la loro forma. Forse, un po’ questo è stato “Storie Lontane. Racconti di Vita in Afghanistan”, ieri. La storia di un popolo, di un paese. La storia di persone.

E di persone ne ho viste tante. Amici, che hanno deciso di trascorrere un sabato pomeriggio, l’ultimo prima di Natale con me. A sentire le mie di Storie…qualcuno già le conosceva, qualcun altro le ha ascoltate per la prima volta. Tutti, forse, si sono innamorati non tanto di un Paese e delle sue “Storie…” quanto del fascino del “Lontano…”, dell’idea della guerra che continua a suscitare sentimenti: patriottismo e paura, rabbia e dolore, vittorie e sconfitte, vincitori e vinti. Mi vengono in mente le parole di Brecht che ti dice che dalla guerra ad uscirne sconfitta è sempre la “povera gente”. Io credo che tutti da una guerra ne escono perdenti. La stessa umanità, che continua a non capire. Ma d’altronde l’umanità si è sempre accompagnata alla guerra, alla smania di potere, al racconto. I versi di Omero ti parlano di guerra, di combattimenti, di “infiniti lutti”. Poi, Cesare con la sua voglia di dominare, e così scorrono i secoli fino ad arrivare ad oggi, a noi che continuiamo a farla la guerra. E a raccontarla. Ognuno a suo modo.

Con i sogni. Quelli di Carla che in Tanzania ha portato non solo “Storie Lontane…” ma un’altra parola: futuro. Quello dei bambini che studieranno nelle sue scuole, quello delle donne che potranno dare da bere ai propri figli acqua potabile. Quello dei ragazzi che rincorrono in un pallone la loro voglia di svago. Come altri ragazzi, oggi grandi, che come canta De Gregori hanno appeso “gli scarpini a qualche tipo di muro”. E “chissà quante ne vedranno…” le loro magliette… ne vedranno altri di abbracci dopo un gol… forse è stata questa la nostra più grande vittoria!

Con la vicinanza. Quella di Daniel e Maria Clara che ci hanno fatto vedere un’altra Italia che affianca l’Afghanistan. Immagini di avamposti di guerra, dove si vive con il brivido di non farcela…ma non mancano forza d’animo e determinazione. Non mancano neanche i sorrisi dei bambini che non hanno play-station e you tube… ma si divertono ugualmente.

Con la saggezza. Quella di un Ambasciatore Afghano che ti racconta della sua terra, del suo paese e del “chador”. Resti affascinato nel sentirlo parlare. Ti dice che ha scritto anche lui un racconto sulle donne e il burqa. È il rispetto delle tradizioni. Poi, quella frase che non dimentico: “Thank You, to Mister Mirko Polisano”…e mi sembra di essere in un film americano. Uno di quelli dove vincono i buoni…

Con la sensibilità. Quella di Sharidad e di tutti coloro che si stanno battendo per salvare il Campo di Ashraf in Iraq per lottare contro la violazione dei diritti umani. Il capo coperto e un italiano semplice per farti capire che è necessario parlarne…

Arriva Annarita. Ci siamo conosciuti un paio di settimane fa in un bar del centro di Roma. Sotto la statua del bersagliere. Suo figlio è paracadutista…oggi non c’è più. Se ne è andato pochi mesi fa in Afghanistan. Ci abbracciamo. Per lei, ricordarlo è importante…per noi forse di più. L’applauso. Ci si alza in piedi. E da oggi il suo dolore non è più solo suo.

È anche un po’ nostro…


Con Annarita Lomastro, mamma di David Tobini



Con Pino Scaccia, giornalista Tg1



Mirko Polisano

domenica 4 dicembre 2011

STORIE LONTANE...ARRIVA A NAPOLI


È stato presentato lo scorso fine settimana a Napoli, “Storie Lontane. Racconti di Vita in Afghanistan”, il libro di Mirko Polisano edito dalla Dpc Editore di Raffaella Ravano. Due gli incontri con l’autore. Il primo è avvenuto presso la biblioteca “Villa Bruno” a San Giorgio a Cremano, organizzato dalla giornalista Stefania Melucci; il secondo si è tenuto presso il PAN di Napoli (Palazzo Arti Napoli) nel cuore della città partenopea.

“Per questa splendida location – ha spiegato l’autore – ringrazio personalmente il Sindaco De Magistris e l’Assessore alla Cultura Di Nocera per la loro disponibilità e per aver autorizzato l’utilizzo di questi spazi”.

L’incontro è stato moderato dalla giornalista Katiuscia Laneri ed ha visto la partecipazione di Fabio Pascapè, direttore del P.A.N., che ha aperto i lavori spiegando come il Palazzo delle Arti sia diventato negli ultimi mesi uno dei centri culturali più attivi di Napoli; e di Maria Lorenzi, Presidente Commissione Cultura del Comune di Napoli che ha dichiarato:

“In questo libro – ha fatto sapere Maria Lorenzi, Presidente Commissione Cultura Comune di Napoli – c’è un altro Afghanistan: quello di cui i telegiornali parlano poco. C’è la vita delle donne afghane, dei giovani e di un mondo che non è tanto lontano dal nostro”.

Presenti all’evento anche Raffaella Ravano, Casa Editrice Dpc, Salvatore Colloca, Delegato Cultura XIII Municipio e Monica Picca, Presidente Commissione Cultura XIII Municipio che hanno portato il loro saluto istituzionale e hanno offerto un omaggio ai rappresentanti dell’amministrazione comunale di Napoli.



Il libro acquistabile sul sito della casa editrice www.dpcsnc.it sarà presentato il prossimo 17 dicembre presso il Salone Riario di Ostia Antica, alla presenza di autorevoli esponenti del mondo della politica internazionale e del mondo del giornalismo. Poi, le presentazioni avverranno sia all’estero che nelle grandi città italiane: Milano, Firenze, Trapani, Palermo, Bologna, Venezia.

Gli aggiornamenti potranno essere consultati sul blog di Mirko Polisano: http://storielontane.blogspot.com


domenica 27 novembre 2011

MARE IN VISTA, LI' DOVE TRAMONTA IL SOLE

Capita spesso d’estate. Quasi sempre. Per chi si imbatte, magari dopo una giornata di mare, su Corso Duca di Genova lo sa: il sole sbatte sul parabrezza della tua macchina. Ti acceca. È di un rosso fuoco, romantico che ti illumina il viso mentre guidi. Come se ti indicasse la strada. E così arrivi in via Baffigo che finisce lì dove finisce Ostia: l’ Idroscalo. E confina con quella che oggi molti giornali titolano e chiamano il “quadrilatero della mala”. La cronaca torna a parlare di Ostia Ponente e lo fa ricordando soprannomi e epiteti che non lasciano dubbi. Puntualmente, ritorna lo spettro della Banda della Magliana, forse anche Romanzo Criminale e le altre fiction ci hanno messo del loro. Ritornano le parole di chi sembra sguazzarci con termini di un giornalismo ad effetto, il cui effetto però è consuetudine degli anni passati. Certo, non si può chiudere gli occhi di fronte a quanto accaduto pochi giorni fa, ma neanche generalizzare. Le problematiche di Ostia Ponente sono le stesse di ogni quartiere popolare. Sembrano le stesse pagine scritte per Tor Bella Monaca, Corviale, Magliana, che ti portano a scrivere articoli anche in dialetto romanesco. “Calippo e Biretta” e “Ostia Beach”, sembrano tormentoni da cui non vogliamo scollarci. D’altronde, non ci aiutano neanche attori che al cinema o in tv ci imitano tossici e dicono parolacce. Etichette.

Ricordo una serata di un po’ di anni fa. Al Fara Nume ed era interamente dedicata ad Ostia Ponente. Aneddoti: quello di Stefania che senza macchina si recava alla fermata dell’autobus. In tanti, prima dell’arrivo al capolinea, vedendo una donna sola, si proposero di offrirle un passaggio. Tonino, disabile che la notte di un capodanno fu malmenato. Un quartiere ha fatto il tifo per lui, quando lottava tra la vita e la morte.

Io non ho abitato ad Ostia Ponente, ma ci vado spesso. Da sempre. Da quando andavo a citofonare Luciano in via Vincon. All’epoca, e non è tanto tempo fa, non esistevano ancora i telefonini e allora dovevi, si, citofonare. E io partivo da casa mia, dall’altra parte di Ostia. Poi, ne ho conosciuti altri di ragazzi “bravi” davvero, però. Hanno lavorato e lavorano con me, giovani che rappresentano l’altra faccia di un quartiere che non viene raccontato dalle cronache quotidiane.

Davanti a me, la distesa del mare. I casermoni del porto non riescono a coprirlo. È il sole che sta tramontando. È “Mare in Vista” che un po’ ci ha fatto riscoprire l’amore per quel chilometro di lungomare che finisce nel nulla. Gente che passeggia, qualcuno sfoglia i giornali che ti parlano dello stesso posto, ma in modo diverso. Ritornano le etichette.

Ma ben vengano…perché da sempre l’etichetta è garanzia di qualità!

Mirko Polisano

sabato 19 novembre 2011

STORIE LONTANE...PARTE IL TOUR PROMOZIONALE...


E' in uscita "Storie Lontane. Racconti di vita in Afghanistan", il libro di Mirko Polisano che dal mese di dicembre sarà in distribuzione. Le tappe di presentazione si svolgeranno in tutta Italia, a partire da Napoli. L'evento a Roma si terrà il prossimo 17 dicembre alle ore 18.00 presso il Salone Riario di Ostia Antica. Il libro, edito dalla Casa Editrice Dpc di Raffaella Ravano, potrà essere acquistato anche on line sul sito della Dpc: www.dpcsnc.it

Queste le date del Tour in Italia:
TOUR PROMOZIONALE
“STORIE LONTANE…RACCONTI DI VITA IN AFGHANISTAN”
DpC Editore di Raffaella Ravano


ITALIA:

02.12.2011 – NAPOLI (Biblioteca Villa Bruno, San Giorgio a Cremano). Ore 17.30. Modera la giornalista Stefania Melucci.

03.12.2011 – NAPOLI P.A.N. (Palazzo delle Arti). Ore 17.30. Modera la giornalista Katiuscia Laneri.

17.12.2011 – ROMA (Salone Riario – Ostia Antica). Ore 18.00. Conducono Alberto Tabbì (Canale Dieci) e Giorgia Perla (Canale Dieci).


03.02.2012 – VENEZIA ( Sala Congressi del Circolo Unificato del Presidio Militare)

12.02.2012 – BRESCIA. Modera la giornalista Milla Prandelli.

15.03.2012 – FIRENZE

19.04.2012 – TRAPANI

20.04.2012 – PALERMO

26.05.2012 – THIENE

Nelle prossime settimane, sarà anche diffuso il calendario delle date all'estero.

mercoledì 26 ottobre 2011

LIBIA, GHEDDAFI E LA MORTE IN PRIMA PAGINA

Non so se è questo che la gente vuole. Si, perché ti rispondono sempre così. Dal Grande Fratello, all’Isola dei Famosi: ti chiedi il perché di tanti reality in tv e ti dicono “è questo che la gente vuole”. Ti chiedi il perché di quel accanimento mediatico per Sarah, Yara e Melania…e ti dicono “è questo che la gente vuole”. In questi giorni, le prime pagine dei giornali sono state dedicate a Gheddafi e alla sua morte. Le ferite, il sangue in faccia e quelle foto che parlano più di tutto. La fine, che sembra suscitare anche pietà per quel rivoluzionario divenuto despota, discusso e controverso. Un’immagine che la stampa comunque è riuscita a umanizzare e qualcuno si è anche chiesto chissà cosa avrà pensato in quei minuti che sono trascorsi dalla cattura a quel colpo in testa. La fine di ogni dittatore: in molti l’hanno detto. Così tramonta l’era del Colonnello e con lui se ne vanno i misteri di Lockerbie e Ustica e restano i dubbi sul futuro della Libia, dove non mancano le insidie e altro fondamentalismo. Oggi, il ragazzo con la pistola d’oro è quasi un eroe e sono molte le “democrazie” occidentali che lo ringrazierebbero. Quella stessa “democrazia” di cui parlava Bush, il giorno dell’impiccagione di Saddam Hussein, mentre Amnesty International disse che il processo non era stato modello di equità. Quella “democrazia” occidentale a cui si è rivolto il Rais prima della cattura, chiamando in causa Berlusconi per far cessare i bombardamenti Nato. Gridava: “Non sparate, risparmiatemi”, Gheddafi, quasi a dimostrare la sua impotenza e la veridicità di quel detto in cui “nella vita tutto torna”. Eppure, fino a qualche tempo fa era Osama Bin Laden il Principe del Terrore. Tanto temuto da far esplodere una guerra, vera, in Afghanistan. Anche Bin Laden è morto. Anzi, è stato ucciso. Ma le sue immagini non sono state diffuse, tanto da insinuare il dubbio che forse non sia neanche lui. O forse, la punizione è stata talmente dura da provare anche un minimo di vergogna. Per Gheddafi non c’è stata vergogna o imbarazzo nel pubblicare quelle foto col volto imbrattato di sangue. Le immagini di lui in una cella frigorifera per polli hanno fatto davvero il giro del mondo. Mi chiedo se era il caso, invece che ammazzarlo, di processarlo, ma il rischio che la giustizia non facesse il suo corso era effettivamente troppo alto. Vedi Milosevic, altro guerrafondaio, che si è lasciato morire piuttosto che farsi ammazzare. Anche questa scelta, nelle menti più ingegnose potrebbe apparire in fondo come una vittoria. E allora no. Era giusto ucciderlo Gheddafi. Prima le bombe, quelle “intelligenti”, ovviamente. Poi i profughi, e le parole di Jawadiaballah che mi disse un giorno in fuga da Misurata: “Gheddafi is brain, but no a good man”. Gheddafi è intelligente, ma non un uomo buono. Allora, si ammazzatelo. Spaccategli la testa e gridatelo al mondo “Gheddafi è morto”. La giusta punizione l’ha ricevuta. E poi il via vai a vedere il cadavere. In fila, in una sorta di pellegrinaggio blasfemo. Ed è ancora più blasfemo paragonarlo a quello di un altro corpo esposto e fatto vedere in mondovisione, quello di Giovanni Paolo II. A livello comunicativo, potrebbero esprimere lo stesso significato: prime pagine, aperture, internet e you tube. Quasi un gusto perverso per quanto riguarda il Colonnello, una forma di rispetto e devozione nel caso di Papa Wojtyla.

Gheddafi, però, è stato a Roma nella sua tenda berbera circondato da amazzoni che tanto fecero parlare. Gheddafi l’ho visto al G8, a L’Aquila che si divertiva su un veicolo elettrico a raggiungere gli altri Capi di Stato. Era a un passo da Sarkozy e Obama. Non potevamo fermarlo lì?




No. Così non è stato. La storia ha preso un’altra piega. Nei tg e sui quotidiani, lo rivedo Gheddafi. Voleva essere sepolto con il sangue delle sue ferite addosso. Gli è stato negato. È stato ripulito e interrato in un luogo sconosciuto. L’ultima sua immagine resta quella di un morto in una cella frigorifero. Forse è questo che la gente vuole…


domenica 23 ottobre 2011

KOSOVO, ULTIMA FRONTIERA

A volte, il silenzio è davvero struggente. Sembra che lo tocchi con mano. Sembra che ti penetri nell’anima. Meje ti lascia il silenzio dentro. Quel silenzio che contrasta con le voci e i rumori di una città non lontana che rappresenta il nuovo volto del Kosovo. È Pristina. Capitale autoproclamata di uno stato autoproclamatosi indipendente tre anni fa. Ma anche Pristina ha le sue contraddizioni. Da una parte, i bancomat, i locali con i tavolini all’aperto, le multinazionali; dall’altra ambulanti, venditori di pane e di burek. Moschee e minareti a due passi dalla strada principale, che però è intitolata a Madre Teresa. Fiorentina e Besa sono due belle ragazze che incontro sul treno che da Pec mi porta a Pristina. Sono islamiche ma nessuno osa pensarlo: tacchi alti, jeans stretti e nessun velo. Dall’altra parte della strada, invece, una bambina con il hijab, accompagnata dal papà con barba e tunica musulmana. Eccolo, il Kosovo dei paradossi. Culla della religione ortodossa, con i monasteri medioevali, e roccaforte dell’Islam, dove non mancano le frange estremiste e wahabite che rappresentano una minaccia continua. Sono stato nella piazza dove dopo la preghiera del venerdì si registrano scontri e manifestazioni contro un governo che nega la costruzione di nuove moschee perché ce ne sono già troppe. Nel frattempo, però si bloccano anche i lavori della Chiesa ortodossa davanti la biblioteca nazionale. Ma si costruisce una chiesa cristiana…lì dove di cristiani non ce ne sono. Vado a Gazimestan, dove la leggenda è ancora viva. Sulla “piana dei merli” si affrontano slavi e ottomani e le anime dei morti, si dice, echeggiano nei corpi degli uccelli che al tramonto popolano la spianata, deserta e isolata. La stessa da dove parlò Milosevic per illustrare i suoi intenti di abbattere l’idea della Grande Jugoslavia. Poi ne vedi altre di torri. Sono quelle della centrale elettrica a carbone di Obilic, dove è capitato di respirare acido fenico e altre sostanze tossiche. Ho incontrato ambasciatori, delegati delle Nazioni Unite e figli di illustri presidenti. Uno, Rugova è sepolto nel centro cittadino di Pristina. A due passi dallo skyline, accanto ad un monumento socialista abbandonato nel degrado. Così che trovi l’architettura comunista accanto a grattacieli post-moderni. Un teatro nazionale che ha un cartellone d’eccezione e un gioiellino chiamato Prizren che è soprannominata la “Firenze dei Balcani” per le sue bellezze. E ai ponti sopra il fiume di Prizren si contrappongo altri ponti. Quello di Mitrovica, dove le barricate sono presenti e la tensione si respira davvero. Da una parte la bandiera serba, dall’altra quella albanese. E la gente che cerca di sopravvivere. Poi, un cartello attira la mia attenzione. “Belgrado a destra, Pristina a sinistra”. Così mi chiedo dove sta andando il Kosovo…ma prima di fare il prossimo passo in avanti, so che non si può dimenticare quanto ci lasciamo dietro. In un villaggio vicino Djacova c’è un cimitero con oltre 300 lapidi. Sono sepolti gli uomini albanesi uccisi da serbi incappucciati, fino al giorno prima vicini di casa degli stessi albanesi, che deportarono le vittime nel luogo dove sorge ora il cimitero. A quanto pare, i loro corpi non vennero abbandonati nel campo ma caricati su dei camion e portati in Serbia a 500 Km di distanza. Lì vennero seppelliti in fosse comuni che dopo diversi anni gli organismi internazionali portarono alla luce, riaprendo una delle pagine più dolorose della guerra kosovara, ordinando al governo serbo di restituire alle famiglie i resti delle vittime. Ci sono ancora dei dispersi e i loro volti, insieme, a quelli di chi non c’è più campeggiano sulla recinzione del palazzo del Parlamento. È il memoriale del 27 aprile, data del massacro. Il massacro di Meje. E il silenzio, torna prepotente…


Mirko Polisano


venerdì 30 settembre 2011

AFGHANISTAN, PENSANDO A CASA...

È il pensiero che oggi in molti fanno. C’è chi arriva e chi parte. E le emozioni, inevitabilmente, non sono le stesse. Ieri, davanti al computer c’era un uomo in divisa che diceva a casa: “dai, che domani ci vediamo…”, oggi davanti al computer ce n’è un altro, che salutava il figlio, Fabietto, che a casa piangeva senza il papà. Ma per chi fa il soldato, sa che è così e anche le famiglie lo sanno. Difficile, magari spiegarlo o, forse, accettarlo, specie i primi giorni. E non vedi l’ora che questi sei mesi passino in fretta, per la voglia reciproca di abbracciarsi. Succede a noi reporter, che qui di giorni ne dobbiamo trascorrere dieci, quindici al massimo. Hai voglia delle piccole cose, niente quando le hai davanti e tutti giorni, tutto, quando sei in un posto come questo. E così, ti manca anche quel cornetto la mattina, il giornale che sfogli per sapere cos’è successo, la telefonata per sapere cosa fai a pranzo o a cena. Hai voglia perfino del caffè a colazione…io che di caffè non ne bevo. Poi la sera, vedi il cielo e le stelle che hai lasciato qualche mese fa, ti sembrano le stesse e sembrano dirti: “noi siamo ancora qui…e vediamo tutto…”. E se potessero parlare, ti racconterebbero anch’esse di questo paese, che sa di polvere e terra, che sa di vita, e di voglia di ricominciare tutto da capo, con o senza di noi. Ogni base operativa, anche quella più a rischio, ha le sue storie; ogni villaggio i suoi personaggi, ogni paese le sue tradizioni e i suoi saggi che di leggende ne narrano da tempo…ma se potessero, le stelle ti racconterebbero di altri che non ce l’hanno fatta e non soltanto quelli che indossano una divisa, ma anche di bambini, donne e uomini vittime di una guerra che va avanti da dieci anni. Ti racconterebbero, anche di Herat, città storica, nel cui cuore periferico sorge la base italiana…un po’ come una casa, per chi qui lavora, ripensando ogni tanto e troppo spesso a quella vera a Cagliari, Pisa, Venezia, Roma. E c’è anche chi ha voluto segnare su tavole di legno…i chilometri da qui alle città di provenienza di ciascuno: un po’ per accorciare le distanze. E di città ce ne sono davvero tante: dalle più famose, alle meno conosciute. C’è Teramo, per esempio, rappresentata su questo stendardo ligneo con mare, monti e…arrosticini; c’è Udine, ma anche la piccola Montoro Inferiore, vedo bene e trovo il mare e il sole, sopra una scritta: “Ostia”, leggo i chilometri: 3696 e le coordinate gps…prima un sorriso, poi sembra così vicino: il cavalcavia,lo studio di Salvatore, il negozio di musica e…dalla strada guardo in su e… al posto delle stelle, trovo quell’angolo di balcone che sporge…ecco anche io ripenso un po’ a casa…non resta che citofonare…

Mirko Polisano

martedì 27 settembre 2011

CAMBIO AL VERTICE A BALA MOURGHAB

Si è svolta questa mattina la cerimonia di cambio di comando della base avanzata di Bala Mourghab in Afghanistan. Al grido "Folgore!", il Colonnello Marco Tuzzolino, Comandante del 183 Reggimento Paracadutisti Nembo, ha lasciato il comando della F.O.B. Todd a Luigi Viel, a capo del 151 Reggimento Sassari. Il Colonnello Tuzzolino, davanti alle truppe schierata e ad una vasta platea di autorità afgane ha ricordato l'impegno non solo del suo Reggimento ma quello di tutti gli uomini e donne che stanno lavorando in Afghanistan. L'emozione del giorno, resta il ricordo del Caporal Maggiore David Tobini, la cui foto è accompagnata da una toccante testimonianza dei suoi commilitoni, all'ingresso della base, sicuramente tra le più difficili di tutto il dispiegamento Italiano presente in Afghanistan. Un omaggio ai caduti si è registrato anche questa mattina, nel corso del consiglio regionale della Puglia, dove si è tenuto un minuto di silenzio per commemorare il caporalmaggiore dell'Esercito Mario Frasca, caduto ad Herat con il tenente Riccardo Bucci e il caporalmaggiore Massimo Di Legge. «Rinnoviamo il cordoglio per questo nuovo tragico evento in Afghanistan, costato la vita al secondo militare della provincia di Foggia, dopo l'alpino Francesco Positano. Sono due - ha spiegato in Aula - il presidente dell'Assemblea regionale, Onofrio Introna - dei nove pugliesi tra i 44 ragazzi italiani 'andati avantì, in quasi sette anni di presenza italiana nel tormentato Paese asiatico. Davanti all'ennesimo sacrificio, sento di interpretare i sentimenti di commozione dell'Assemblea, ma anche di apprensione. Siamo vicini ai congiunti, alle famiglie, alle comunità in lutto e come nelle altre occasioni vorremmo che fosse l'ultima volta». «La consapevolezza degli impegni internazionali del Paese - ha aggiunto Introna - non cancella il dolore per le troppe morti giovani, in una missione di pace che pretende costi umani altissimi. Chiedere prospettive di uscita onorevoli diventa ogni giorno più legittimo». Intanto la tensione resta alta in Afghanistan, e proprio ad Herat dove siamo noi. Da fonti giornalistiche, si apprende di una nuova esplosione: almeno 16 civili, di cui 11 bambini, sono rimasti uccisi a causa dell' esplosione di una mina, forse messa sulla strada dagli insurgents. Lo affermano le autorità afghane.I 16 viaggiavano su un autobus per partecipare a un matrimonio nell'ovest del Paese, nella provincia di Shindad. Proprio a Shindad saremo noi domani per raccontare un nuovo passo in questa fase di cambio di contingente.

Mirko Polisano

domenica 25 settembre 2011

DI NUOVO AFGHANISTAN...

Di nuovo, Afghanistan. Ritornare in quella terra ti riporta a qualche mese fa. A quello che hai lasciato laggiù tra le montagne…e a quello che vorrai trovare. Come se “quel qualcosa in sospeso” che hai lasciato a gennaio, torna prepotentemente nella tua testa. È il lavoro che ti dice di continuare, ma non solo. È la voglia di voler affermare, attraverso le parole e i racconti, che quel paese ha tante meraviglie, oscurate da sangue e guerra. L’occasione di incontrare quel popolo, con le sue tradizioni e le sue abitudini, ti fa dimenticare le fatiche del viaggio e gli oltre 4.300 chilometri che ti dividono da Herat. Pensieri e ricordi non tanto lontani, che ti parlano di una terra difficile e martoriata. Di monti e valli, avvolte da polvere che sembra nebbia. Di strade da percorrere e di storia da studiare. Di ragazzi che stanno per tornare a casa, di altri che, come me, stanno per partire, di altri ancora che non ce l’hanno fatta. Come quelli rientrati in patria oggi, avvolti da un tricolore, che spesso commuovono l’Italia e puntualmente ci fanno chiedere se sia giusto o no rimanere. Di una cosa siamo sicuri, che davvero l’Italia lì sta facendo il proprio dovere. Un dovere adempiendo al quale, può costare anche vite umane. Così, sei pronto ad andare: non sai quello che troverai, né cosa cerchi. Il bello di ogni viaggio è la scoperta improvvisa, quell’imprevisto piacevole che può trasformarti una giornata qualsiasi in un momento che non dimenticherai per il resto della tua vita. Come quando ho visto il piccolo Abbas, di dieci giorni in un’infermeria del Libano del Sud, come quando Avnia, in una casa famiglia in Kosovo, mi regalò la sua mano disegnata…come tutte le volte che questo mestiere ti offre sorprese ed emozioni. È ora di andare…ma dentro di te, speri di rivederlo. Di rincontrare quegli occhi e quel sorriso…

Ci spero, Hamidullah.


Mirko Polisano

martedì 30 agosto 2011

Primavera araba: chi gestisce la fase di transizione? Il commento di Salim Ghostine

Il mondo arabo, attraversato dalle rivolte della cosiddetta ‘primavera araba’, continua ad essere in fermento. In questa cruciale fase, successiva anche a decennali governi autoritari, Stati come Tunisia ed Egitto cercano di trovare risposte ai lati incompiuti della rivoluzione. Amedeo Lomonaco ne ha parlato con Salim Ghostine, giornalista libanese:

"C’è una fase di transizione, e qui incominciano i dubbi: da chi è gestita questa fase transitoria? E’ una fase in cui non si è ancora strutturata bene l’alternativa politica, perché in presenza di dittature che sono durate 30 o 40 anni, chiaramente la vita politica è ormai ridotta a meri simboli nei partiti. Dunque bisogna reagire presto ma soprattutto avere protagonisti che siano in grado di reagire bene e presto. In Tunisia, per esempio, proprio ieri c’è stata una manifestazione non di giovani disoccupati, ma di avvocati e magistrati che sostengono che la magistratura, chiamata a giudicare le ingiustizie del passato regime, è tutta schierata e dunque chiedono una magistratura libera. Ecco, dunque, che lo strumento per pulire la ferita ancora non c’è, per quanto riguarda la Tunisia. Per quanto riguarda l’Egitto, c’è un altro tipo di problema: Mubarak non c’è più. Ma chi sta guidando la fase transitoria? I militari. Qualche analista, nei giornali arabi, dice che non è stata l’opinione pubblica a rovesciare Mubarak, ma un “golpe di palazzo”, cioè i militari che per non perdere il controllo della situazione avrebbero spodestato Mubarak ed ora stanno gestendo – loro – il “dopo”.


D. – Vuoti da colmare, ferite ancora aperte, lati incompiuti … però, la “primavera araba” sembra lasciare ancora irrisolta, tra le altre questioni, una cruciale, cioè il rapporto tra Stato e religione: una relazione che si riflette anche in diversi ambiti, non solo politici ma anche sociali e culturali?

R. – Culturali, per esempio: siamo nel mese del Ramadan, del digiuno islamico. Questo è un periodo in cui i musulmani restano a casa per via del gran caldo; dunque è la stagione della produzione televisiva massima. Ebbene, c’è un serial televisivo prodotto da una casa cinematografica del Qatar, che è intitolato “Al Hassan e Mu’awiyah”. Praticamente, racconta la fase cruciale della spaccatura dell’Islam in due: sunniti e sciiti. Ebbene, quello che doveva essere un semplice serial televisivo di intrattenimento – o di cultura – per i musulmani digiunanti, osservanti, nelle loro case, è diventato un caso politico. I governi arabi stanno intervenendo e addirittura il Parlamento a Baghdad, in Iraq, ha trovato modo di riunirsi per dibattere di questo serial televisivo e per dichiarare che è vietato trasmetterlo sui canali iracheni. Questo per dire che è praticamente impossibile estromettere la religione dalla politica o dalla cultura nel mondo arabo di oggi.

D. – Il mondo arabo di oggi sicuramente è in fermento. In particolare, le rivolte possono rivelarsi anche il motore di un cambiamento della condizione della donna, sia all’interno della famiglia, sia nella società, o permangono ancora delle resistenze, in questo ambito?

R. – Possiamo parlare di fatti concreti. In Egitto si sono viste molte ragazze che hanno manifestato; in Tunisia, la donna tunisina ha svolto un ruolo di prima linea; in Libano, il Parlamento non è riuscito a eliminare una delle piaghe delle società islamiche, e cioè il “delitto d’onore”: il Parlamento libanese sta discutendo ancora e l’unica cosa che sono riusciti ad ottenere è l’eliminazione delle “attenuanti generiche” per chi compie un delitto d’onore. Quindi, quello che vediamo in televisione è un processo democratico, ma la democrazia non è semplicemente l’elezione: la democrazie è un’evoluzione del costume, anche a livello sociale. (gf)


da www.radiovaticana.org



martedì 16 agosto 2011

LIBANO, APPUNTI DI UN VIAGGIO...





Ogni viaggio che si rispetti ha bisogno di un suo bilancio. Lo fai quando rientri da una vacanza, da un’esperienza all’estero, da un qualcosa che per te è importante. Già dai primi giorni, ho capito che la percezione di questo paese è cambiata. E non solo dal punto di vista del reporter, dell’uomo, ma anche da quello degli internazionali e del popolo stesso, che da scettico inizia a vedere il bicchiere mezzo pieno. Nonostante il caldo che sfiora e, talvolta supera, i 40 gradi non rinuncio alla camicia…che dalla nascita non ho mai tolto. E’ soprattutto in questi momenti, quando ti accorgi che stai facendo il lavoro che hai sempre sognato, che capisci il senso di quell’espressione che in tanti ripetono e ti ripetono “sei nato con la camicia…”. Ma più che fortunato, mi ritengo privilegiato nel poter raccogliere storie e testimonianze di un popolo che sta cambiando e che vuole cambiare. Un sentimento, questo, che leggi nello sguardo delle persone, dei giovani, vivano questi in un villaggio cristiano-maronita, piuttosto che in una città musulmana. Leggi segnali che ti fanno capire quanto sia importante per loro, almeno questa volta, raggiungere lo stesso obiettivo. Che poi è lo stesso che vogliamo noi, al di qua del Mediterraneo. Dalle antiche rovine del porto di Tyro vedo il mare…e qualche italiano, che qui deve trascorrere altri, almeno, quattro mesi…si sforza nel voler vedere la Sicilia…solo per sentirsi più a casa. A me basta il mare. E va bene il rumore delle onde, per immaginarmi ad Ostia. Le distese degli agrumeti e i bananeti non sembrano soffrire il caldo quanto noi. Frutti maturi, che segnano il passo di un paese che vuole crescere e ricostruirsi. Consapevole di non poterlo fare nè senza un processo di pacificazione, né senza la speranza delle generazioni contemporanee e future che dovranno lottare perché ciò accada. Lottare nel senso più positivo del termine, vale a dire il “non arrendersi” a scelte e decisioni scellerate e “non arrendersi” all’idea - avuta fino a qualche anno fa - che la guerra fa parte del loro quotidiano. Non ho visto, come in passato, negozianti che rientrano a casa con la merce in vendita perché il giorno dopo c’è il dubbio della riapertura, non ho visto intolleranza, né disprezzo. Ma ho visto il dialogo, mai capitato per questa terra. Si, ho visto libanesi e israeliani sedersi allo stesso tavolo. Già questo può bastare. Inimmaginabile fino a qualche tempo fa. Poi, ho trovato la vita di tutti i giorni, quella che va oltre la devastazione della guerra. Ho bevuto il thè con un sindaco di Hamal, ho assaggiato il caffè del comandante delle forze armate libanesi, che di una cosa è convinto: i segnali di pace ci sono e si vedono. L’ultima sera la passo con Hassan. È un professore di storia dell’arte. È musulmano e sta seguendo il mese del ramadan. Ha passato la sua giornata a fare lezione sotto il sole di agosto. Senza bere, né mangiare per tutto il giorno. Al tramonto, mi invita a cena. Finalmente, il suo primo bicchiere d’acqua. Educato, con uno stile impeccabile lo manda giù, come se non avesse sete. E io… che mi lamento del caldo e della mia camicia…


Mirko Polisano

venerdì 12 agosto 2011

LIBANO, ARRIVO A BEIRUT...SOGNANDO SHARM...

Arriviamo a Beirut, ma non è un arrivo. Mancano altre cinque ore di viaggio per giungere a destinazione. Nella “staging area”, ci assegnano i pullman: la strada è lunga, tortuosa e anche pericolosa. L’attentato del maggio scorso, ai danni degli italiani continua ad avere la sua eco. E così anche le disposizioni sulla sicurezza cambiano. Già dai primi minuti, mi accorgo che è un Libano diverso da quello lasciato tre anni fa. Ci consegnano il giubbino anti-proiettile e il kit di primo intervento per il soccorso di emergenza. Parte la colonna. Attraversiamo la “zona rossa”, teatro degli ultimi avvenimenti. “mike 1 a mike 2…che succede? Interrogativo. Passo”. Dalla radio, nessuno risponde. Il mezzo davanti a noi è fermo. Fino alla terza chiamata non arrivano spiegazioni. Il macchinista parla invano. Quando voglio risposte, non le cerco da chi comunque mi vuole rassicurare. Le trovo in chi mi sta intorno. Sono i giovani militari, seduti accanto a me. Sembrano essere tranquilli. La certezza, arriva quando dal viva voce dicono che il mezzo è fermo a causa di un’avaria. Si riparte. Sono le tre del mattino, circa. Ormai, non riesco più a prendere sonno, così ascolto. Ci sono due soldati che parlano tra loro. Rientrano da 15 giorni di licenza. Non conosco i loro nomi. Parlano quel siciliano stretto che poco ti lascia intendere. C’è chi li chiama “terroni”…per me rappresentano la bellezza di un Paese, il nostro, capace di aprirsi a tanti modi di essere. Si raccontano queste brevi vacanze. Uno le ha trascorse in famiglia, al villaggio con i suoi tre bambini; l’altro, da buon isolano, nella sua terra: di giorno, qualche caletta raggiunta con il gommone, di sera, un’uscita con gli amici. Continuano a chiacchierare, finquando quest’ultimo interrompe il discorso con una sincera esternazione:

“Lo sai che c’è? Voglio farmi anche io una vacanza di relax…come si deve! Voglio andare al mare, al sole, al caldo…ma non qui in Libano…mi piacerebbe Sharm, a fine missione…che dici è un sogno?”.


Continua a parlare…penso alla sua giovane età. E ai suoi sogni che potrebbero essere quelli di un’intera generazione, la mia, che lavora e rischia giorno dopo giorno per cambiare un mondo che così non va…




Mirko Polisano

mercoledì 3 agosto 2011

LA VIGILIA DI UNA NUOVA PARTENZA...

Ogni vigilia che si rispetti è carica di aspettative, progetti, speranze e, perché no…anche dubbi e incertezze. Ed eccomi di nuovo davanti ad un computer, nella sera prima di un nuovo viaggio. Pensi a mille cose e solo rileggendo quelle poche parole scritte finora, ti accorgi che a dubbi e incertezze ne va aggiunta un’altra. Paura. E’ da stupidi vergognarsi. Come è da stupidi non averla quando attraversi popolazioni e paesi che si dividono tra miseria e guerra. Ma anche loro…alla ricerca di una speranza, proprio come te, ripensando a questa vigilia. Già la paura. In Afghanistan, ho capito che questa non deve mancare proprio mai. Perché - ti insegnano- è solo quando sei troppo sicuro di te che rischi di sbagliare. Ecco, se devo dire cosa ha caratterizzato ogni mia vigilia posso tranquillamente ammettere che questa è la paura. Ma una serena paura. È stata la mia compagna di ogni viaggio. Poi, subentra dell’altro. Come è giusto che sia. La passione per questo lavoro, altra compagna di mille avventure, l’emozione. Quella che ti può regalare uno sguardo, una stretta di mano, un saluto ad un saggio musulmano piuttosto che un tuo sorriso ad una donna che ha il suo sorriso nascosto da un velo. Ma prima di partire, non puoi non pensarci a certe cose. E lo fai in tutti quei gesti che reputi scontati…e che ripeti giorno dopo giorno. Quando spegni il computer e lasci la tua scrivania…pensando al giorno che ritornerai a lavoro; così quando chiami il tuo migliore amico al telefono che ti dice: “n’artra vorta devi partì…”, o a cena con i tuoi, o quando saluti il tuo capo, che, prima di andare via, ti dice: “mi raccomando”. Ma non è l’unico. Te lo ripetono un po’ tutti “mi raccomando!”

. Te lo ha detto anche Patrizia stamattina e Teresa, Salvatore, Monica, zio Jakky al telefono…e poi ancora Francesco, Luisa e tanti altri “mi raccomando…”. E lì pensi…che forse tutto dipende da te. E ci ridi su, perché sai anche che non è così. Però puoi fare la differenza, puoi essere un piccolo tassello, che anche con una parola potrà essere in grado di migliorare anche solo se stesso. Allora non basta più quella serena paura…ci vuole ancora un’altra parola: responsabilità. Quella che devi avere sempre quando informi e racconti storie e sentimenti altrui. Così ho imparato questo lavoro, avendo profondamente rispetto per le storie degli altri, che un domani potranno essere le mie. Ecco, che cosa mancava ancora: il rispetto. Quello che non deve mancare nei confronti di chi chiede il tuo aiuto…di chi ti aiuta, e di chi, invece, il tuo aiuto non lo vuole. Potrebbe essere anche questo il primo passo verso…la libertà.

Mirko Polisano

domenica 31 luglio 2011

STORIE LONTANE...RACCONTI DI VITA IN AFGHANISTAN, ANTEPRIMA DEL LIBRO

Si è svolta al Pontile di Ostia l'anteprima del libro "Storie Lontane...Racconti di vita in Afghanistan", edizioni DpC


Il significato di “Storie Lontane…” è già racchiuso nel titolo di questo libro. Sono storie che partono da lontano e arrivano da posti lontani. E difficili. Come l’Afghanistan. Una terra che non puoi dimenticare una volta che l’hai vissuta. Una terra che ti resta dentro con i suoi paesaggi, le sue montagne, la sua polvere che non solo hai sulla pelle ma anche nell’anima. “Storie Lontane…” ha il compito e il dovere di raccontare la vita in Afghanistan. Perché la vita in Afghanistan c’è. E’ la quotidianità scandita dal tempo e dai giorni. E’ la vita commerciale del mercato di Herat, dei venditori di frutta, di pane e di dolci fatti di panna e miele e che riportano questa città agli antichi splendori, a quando era definita la “piccola Parigi” per la sua pasticceria. Ma queste sono le cose che non fanno notizia. E così siamo abituati a parlare di Afghanistan nei telegiornali solo quando rientra la salma di un alpino o di un parà avvolta da un tricolore. Anche “Storie Lontane…” racconta la guerra e le vittime, ma con l’intento di mostrare che l’aridità di quel deserto non è riuscita a portare via l’affetto di cui è circondato chi ha sacrificato la propria vita per la causa internazionale. È il caso di Matteo Miotto, caduto l’ultimo giorno del 2010 in Gulistan. Quel capodanno, raccontato da “Storie Lontane…”, nessuno dei suoi commilitoni né chi, come noi, era lì lo potrà mai dimenticare. Ripartire dopo questa storia è dura, ma la vita va avanti. Anche in Afghanistan. Ed ecco, allora che arriva Hamidullah, bambino di cinque anni che insegue una speranza: arrivare in Italia per poter un giorno camminare; oppure Feizamat che va in giro in moto per le strade di Herat e ci racconta la vita di un ragazzo di 16 anni, che parla benissimo l’inglese; o ancora l’ingegnere. Ha visto prima i russi e poi gli americani. Ha bruciato la sua laurea, perché in Afghanistan non c’è lavoro per un ingegnere e così ha aperto un ristorante in centro città e cucina pollo e montone. A queste storie, si aggiungono quelle dei nostri militari. Uomini e donne che non importa se sia Natale o Capodanno, loro sono lì in garitta, piuttosto che su un lince o in elicottero a pattugliare e a lavorare. Li ho incontrati e non riesco a non ripensare ai loro volti e alla loro vita: Luca di Centocelle, Francesca di Acilia, Carmine di Caserta, Italo di Venezia, Antonino l’infermiere e Andrea, il medico-poeta. Il libro edito dalla casa editrice DpC sarà in vendita dal prossimo novembre. Intanto, è stata presentata ad Ostia l’anteprima. Al Pontile, nello spazio di Approdo alla Lettura, c’erano tanti amici, a cui dedico queste parole.


Perché i giorni a seguire sono quelli in cui ripensi a come è andata. Particolari attimi che restano dentro di te. La mente ritorna a quelle prime pagine scritte. E ti accorgi che dietro non c’è soltanto il tuo lavoro, ma soprattutto tante persone. A cui oggi devi dire grazie. Ne ho viste un po’ e non tutte…perciò qualcuna la dimenticherò sicuramente, non me ne voglia.

Prima di salire sul palco, le prove con Alberto e Giorgia, che ha patito anche il freddo per me. Poi Andrea, Alessandro con le loro musiche e la loro professionalità. Simone, Marco e Giulia…che hanno dato voce alle mie parole.

Stefano, Alessandra, Emanuela e Elena, salutati prima dell’inizio. Salvatore che è dovuto scappare ma ha fatto di tutto per esserci. Tonino che ha già letto le bozze e ti saluta contento. Monica che in un messaggio ti dice che ti vuole bene.

Ripensi a questi piccoli gesti. Poi si parte. Tra il pubblico qualcuno lo intravedi: i familiari sicuramente. E gli amici. Davvero loro non mancano mai. Il flash-back è istantaneo: Angelo con la maglietta del Milan, Danilo con la tuta dell’Adidas, Emanuele con le superga blu, Luciano con il primo motorino. Un esserre. Stefano con il pandino verde e Davide con le perry ellis. Li ritrovi lì seduti, tra le ultime file. Per evitare sorprese. Ma ci sono. Ci sono come tanti altri. Eugenio e Catia, Francesco, Maurizio, Daniel e Maria Clara, Gianni del Tg1, Adriana e Vittorio, Giuliano, Giosuè, Maurizio, Giacomo, Amerigo, Gianluca, Cristiano e Raffaella, Stefania, Anna e Gabriella.

Salvatore con la sua macchina fotografica, così come Luigi pronto a scattare. Roberto, Antonio e Giorgio che continuano a seguirti. Denise, Paolo e Rossana. I cugini e le tante zie…immancabili anche loro. Tullio che ti ha ospitato. E i tuoi professori. C’è la maestra di italiano, la prima a farci scrivere un articolo di giornale. Lo ricordo ancora era sulla guerra in Iraq, la prima del Golfo. Se ci ripenso oggi, mi vengono in mente tante cose. E tante domande soprattutto. La prof di lettere che ti ha insegnato l’amore per la scrittura e la letteratura. E’ anche merito loro.

Il ricavato del libro andrà all’associazione di Carla per aiutare i bambini della Tanzania. Ho scelto l’Associazione “Silenas” perché l’ho conosciuta di persona. Carla è simile a me quando parla delle sue terre povere e difficili trasmette entusiasmo e voglia di aiutare. Così sono più tranquillo se le mie parole d’inchiostro servano a comprare anche solo una lampadina per quei villaggi. Con la prima pubblicazione di “Popoli Spezzati” siamo riusciti ad acquistare un generatore di corrente. Per me è già tanto anche se so che non bisogna accontentarsi. E non lo faremo.

Tra pochi giorni la prossima partenza: destinazione Libano. Sai di dover incontrare nuovi volti e nuove storie da raccontare…come sai già, che ci saranno persone care, pronte ad ascoltarle!

Mirko Polisano

Foto di Salvatore Fizzarotti
Foto di Luigi Pompei



mercoledì 29 giugno 2011

SAHARA MAROCCHINO, AI CONFINI DEL MONDO MODERNO

MERZOUGA- 2011

di Valentina Tortelli


"Vedi quelle montagne laggiù? Quella è la frontiera tunisina". Ahmed, 26 anni, indica l'orizzonte, quell'unica striscia di roccia dopo chilometri e chilometri di deserto. Siamo oltre Merzouga, Sahara marocchino. Dalla terra di re Mohammed VI alla Tunisia, in questo punto, ci sono solo 15km di piste di sabbia. La frontiera, durante i disordini del marzo scorso, è stata chiusa. È sorvegliata da militari mandati in questa specie di confino, letteralmente al confine del mondo. Le loro casematte si ergono nella landa sassosa e arida di questa parte di Sahara, come dadi abbandonati su un tavolo da gioco color sabbia. Inutile dire che nel sole piatto di mezzogiorno non si vede in giro anima viva.

Oltre il villaggio di Merzouga, provincia di Er Rachidia, si staglia l'imponente Erg Chebbi: uno sbarramento di dune di sabbia lungo 30km e largo 10. I suoi 160 metri di altezza cambiano continuamente profilo, a seconda di come le folate di vento sparpagliano i granelli color dell'oro. Ahmed, ragazzo berbero di 26 anni in tunica blu elettrico, mi guida a dorso di cammello alla scalata della duna. Poi si prosegue a piedi, affondando nella soffice e fresca sabbia della sera. Oltre Erg Chebbi, si estende il Sahara fatto di sassi arroventati e di terra arida. Una landa che sembra lunare o marziana, dove vivono ancora i berberi nomadi nei loro dadi di terra secca e di tende colorate che svolazzano al vento caldo. Unici animali: galline e capre.

Ahmed racconta della sua vita di uomo berbero. Lui conosce il deserto perchè nel deserto è nato. Parla francese correntemente e sorride sempre. In questa terra estremamente dura, la vita è una sfida costante. Bisogna essere elastici e ridefinirsi sempre per poter sopravvivere. Dove non si può giocare di forza, dice il proverbio, si deve giocare d'astuzia. Ed è quello che ha fatto Hassan, 41 anni. Dopo la morte di tutto il suo bestiame a causa di una violenta siccità, il berbero Hassan ha lasciato il suo villaggio nel deserto e si è messo al servizio di un amico, in un Aubrege. L'Aubrege, qui a Merzouga, è una specie di Kasbah di terra secca con poche semplici stanze per dormire e una corte interna che protegge dalle tempeste di sabbia e dalla calura estiva. Dato il contesto e ciò che si trova intorno, agli occhi stanchi dei visitatori ogni Kasbah sembra piuttosto uno splendido Ryad. C'è acqua corrente sufficientemente fresca e penombra.

Hassan arriva da un villaggio berbero dietro le dune di Merzouga, avamposto del Sahara. In lui si incarna l'ospitalità berbera. Con grande senso dell'umorismo e una parlantina multilingue, offre il tè alla menta e inizia a raccontare la sua storia. E' un imprenditore nato. In francese, mentre sorseggio appollaiata sui cuscinoni, spiega come ha messo da parte i 4000 euro necessari a comprare il terreno sul quale sorge il suo Aubrege des Roches. Il commercio dei fossili del Sahara rende abbastanza e Hassan ha continuato ad accantonare i suoi risparmi. Poi, senza l'aiuto di un architetto, ha costruito la sua casa in mattoni di fango, con tanto di mura di cinta e corte interna. L'ottima cucina gestita dai fratelli sforna succulenti tajine e la tradizionale kahlia.

I berberi stanziali come Hassan, Ahmed, Moustafà, Ibrahim che ho incontrato, sono estremamente socievoli. Credo che la loro socialità sia spinta da una violenta curiosità di conoscere il mondo. Attraverso i racconti dei visitatori che approdano ai loro villaggi, gli uomini del deserto imparano e immaginano l'Europa, la gioventù occidentale, i costumi diversi, dettati da diversa cultura e da una religione più permissiva rispetto a quella musulmana. Mentre gli uomini sono alla mano, avvicinare le donne berbere è difficilissimo. Forse, con attenzione e discrezione, si può solo incrociare per strada qualche sguardo incorniciato dal nero del kajal. Nulla di più. A Ouarzazate, sulla via per Merzouga, chiedere informazioni alle uniche due donne che ho incontrato è stata una impresa difficile. Se c'è un uomo, non si avvicinano. Ma con le altre donne, anche se occidentali e senza velo, sorridono.

Valentina Tortelli



Dizionario

Ryad = casa nobiliare cittadina con corte interna e spesso una piscina
Kasbah = quartiere o casa fortificata
Tajine = stufato di pollo o manzo con verdure cucinato nella terracotta
Kahlia = piatto tipico del sud con legumi, carne ed uovo
Quattrequattre = fuoristrada 4X4 con il quale si affronta il deserto
Kajal = matita per occhi nera e molto morbida




sabato 4 giugno 2011

PARTE CRONACHE DAL MONDO


Partirà lunedì prossimo, 6 giugno, “Cronache dal Mondo”, il nuovo programma a cura di Mirko Polisano che andrà in onda su Canale Dieci alle ore 20.45.

Si tratta di una rubrica, a cadenza mensile, condotta da Mirko Polisano, giornalista romano con esperienza come embedded in alcuni dei teatri operativi dove è dispiegato il contingente italiano. Tra questi, Libano, Kosovo e Afghanistan. Da qui, nasce l’idea di avvicinare i telespettatori al mondo degli esteri, facendo conoscere, attraverso un linguaggio semplice e quotidiano, il lavoro di quanti operano in Italia come all’estero.

La prima puntata sarà dedicata alla delicata situazione legata al fenomeno dell’immigrazione. Le telecamere mostrano immagini provenienti dalle coste della Sicilia, dove continuano a sbarcare imbarcazioni cariche di immigrati. Particolarmente intense, poi, le parole del popolo libico in fuga da un paese in guerra.

A tutto questo, va aggiunto il parere di esperti e opinionisti, noti anche al grande pubblico, che daranno la loro visione dei fatti.

L’appuntamento è con “Cronache dal Mondo” lunedì 6 giugno alle ore 20.45 su Canale Dieci, televisione del litorale romano. La puntata sarà anche disponibile sul sito ufficiale della televisione www.canaledieci.tv - sul canale You Tube “Cronache dal Mondo” e sul blog di Mirko Polisano http://storielontante.blogspot.com

giovedì 26 maggio 2011

LA PACE DI BALA MURGHAB

Qala-e-Naw– Bala Murghab. E già il nome mette un po' di paura. Una delle zone più a rischio di tutto l'Afghanistan. Ricordo una scritta di un ragazzo poco più che 20enne. Una data poi recitava così: "è finita. Si torna a casa. Strada Herat - Bala Murghab...Vaffanculo". Dice tutto. Ci parla della paura, della tensione, ma allo stesso tempo del coraggio. Si quel coraggio che alcuni neanche sanno di avere, ma che viene fuori nei momenti difficili. Parlavo della paura. Si. Anche quella della pace. Perchè in una terra come quella dell'Afghanistan, le certezze non esistono. Esistono i momenti, gli attimi. E a volte anche la parola pace fa paura. Fa paura perchè può venire meno. Fa paura, proprio come la guerra. La speranza, invece, quella rimane. La notizia è di quelle che fa notizia. 116 insorti, attivi nella provincia di Badghis hanno rinunciato alla violenza aderendo al programma di pace e reintegrazione istituito dal Governo Afghano. L’evento è di oggi ed è avvenuto negli uffici del Direttorato Nazionale della Sicurezza (NDS) della città di Qala-e-Naw. Numerose autorità locali, tra le quali Delbar Jan Arman, governatore della provincia di Badghis, hanno presenziato alla cerimonia. Gli insorti si sono presentati in due gruppi numerosi depositando le loro armi su alcuni tavoli preparati per l’occasione. Un segnale importante.Rivolto a tutti noi. Perchè, come diceva qualcuno, davvero la guerra è la più grande sconfitta dell'umanità.

Mirko Polisano


martedì 19 aprile 2011

MEDIORENTE, LEZIONE DAI POPOLI IN FUGA

di Simona di Michele

L’immigrazione dal Maghreb in rivolta è un fenomeno complesso che coinvolge tanto gli aspetti politici, diplomatici ed organizzativi quanto quelli umanitari e legati all’integrazione tra culture. Da quando, a metà febbraio scorso, si prefigurava la possibilità dell’arrivo di un “esodo biblico” di migranti sulle nostre coste, non si è invece assistito alla promozione efficace di nessuno di questi due livelli di analisi: le forze di governo nostrane ed europee, lungi dal prepararsi preventivamente nei confronti di uno scenario simile, hanno procrastinato qualsiasi decisione efficace, scaricandosi vicendevolmente la responsabilità di “sopportare” il peso dei nuovi venuti nordafricani. La disorganizzazione strategica e la scarsa volontà politica italiana di un pronto intervento hanno inoltre causato l’esasperazione degli abitanti delle zone che hanno accolto i migranti. Ciò ha in parte amplificato l’immaginario di pregiudizi e di stereotipi verso di loro, relegando sullo sfondo anche il secondo aspetto, quello della solidarietà, della tolleranza e dell’integrazione, e anteponendo ad esso l’atavica paura dell’integralismo islamico.
Sul versante politico, tanto l’Italia quanto l’Unione Europea si sono approcciate al fenomeno prive di un reale senso di pragmatismo e solidarietà: l’accordo tra il governo, le regioni e gli enti locali italiani per accogliere fino a cinquantamila profughi “equamente distribuiti nel territorio nazionale”, siglato il 30 marzo e prontamente seguito dall’attracco al porto di Lampedusa della prima nave prevista per il trasferimento dei migranti dall’isola, più che prefigurare l’avvio di una politica interna finalmente lungimirante ed equilibrata, ne ha riconfermato le contraddizioni. Le “altre destinazioni” prescelte per accogliere i migranti sono state infatti ulteriori città del sud dell’Italia: decisione che ben si coniuga con le sconcertanti dichiarazioni di alcuni politici italiani, come quelle rilasciate dal leader della Lega Nord Umberto Bossi ai giornalisti che lo hanno intervistato a fine marzo, “Gli immigrati [è] meglio tenerli al sud. La soluzione è prenderli dall’isola e rimandarli a casa. E comunque è meglio tenerli vicini a casa loro. Per portarli sulle Alpi devi fare migliaia di chilometri...”.La latitanza dell’Unione Europea nella concretizzazione di interventi veramente efficaci e definitivi nei confronti dell’immigrazione non produce minore indignazione: il caso più evidente è rappresentato dalla Francia di Sarkozy, tanto più chiusa all’accoglienza dei migranti quanto più invece si rivela la destinazione ultima agognata dalla stragrande maggioranza dei tunisini che lì si vogliono ricongiungere con famiglie, amici e conoscenti.
In conclusione, tanto la governance italiana quanto quella europea hanno saputo dimostrare fin dagli esordi una imbarazzante mancanza di solidarietà: l’Occidente del benessere e della ricchezza si è immediatamente defilato lasciando che fosse lo stesso paese da cui sono partiti i migranti a gestire sul proprio territorio un numero di persone (quelle provenienti dalla Libia) ben più alto di quello che ha raggiunto le nostre coste, e con l’ausilio di risorse (economiche, politiche, sociali) ancor più precarie perché destabilizzato dall’attuale fase critica della transizione.
In un simile scenario si rischia di perdere di vista la dimensione più importante, quella umana: i migranti, spersonalizzati dalla retorica politica, perdono la dignità di esseri umani perché vengono tramutati in numeri scomodi da organizzare, in oneri gravosi che tutti, per un motivo o per un altro, preferiscono non avere nel proprio territorio. La dimensione umana viene negata anche a coloro che li dovrebbero accogliere, nel momento in cui le carenze governative li costringono a preoccuparsi delle contingenze materiali piuttosto che della possibilità di costruire con i migranti un tangibile e sereno clima di integrazione: in un’Italia totalmente squilibrata, con un sud “invaso” e un nord che si rifiuta di aprire le proprie porte ai migranti, la sola condivisione possibile coi nuovi venuti può riguardare esclusivamente gli aspetti più negativi e problematici, ovvero l’intollerabilità delle assurde condizioni igieniche, sociali e psicologiche in cui versano insieme migranti e residenti. L’Italia, nell’ottica dei migranti, è del resto un paese di passaggio: la meta reale è l’Europa, che rappresenta per i giovani harraga la prospettiva di un lavoro e la speranza di abbracciare i propri cari. La transitorietà del loro passaggio nel nostro paese, l’accoglienza politica stentata e diffidente (l’unica che viene loro garantita) e la difficoltà di trovare negli italiani un interlocutore totalmente disposto ad aiutarne l’assimilazione sono tutti fattori che aprono una voragine sempre più profonda tra noi e loro. Una distanza che, vista la situazione odierna dei paesi del Mediterraneo, è da considerarsi, nel minore dei casi, del tutto anacronistica. La natura del fenomeno migratorio, dunque, ha una valenza molto complessa nella misura in cui induce a riflettere su ciò che noi stessi, in quanto popolo, siamo abituati a dare agli altri, e su quanto rischiamo assuefacendoci alle debolezze di un governo che ci imprigiona nei nostri stessi pregiudizi. I migranti che giungono sulle coste italiane possono rappresentare un monito per le nostre coscienze; tramite la loro venuta dobbiamo renderci conto di quanto gli errori del governo ci stiano impedendo di essere, agli occhi di chi chiede il nostro aiuto, una opportunità per il loro futuro, e per il nostro.

Simona di Michele

domenica 20 marzo 2011

CALPESTI E DERISI: 150 ANNI DI UNITA' TRA FESTE E FESTINI...

"W l'Italia dimenticata e da dimenticare...". Così cantava De Gregori, e il popolo delle canzonette è lo stesso che un po' poi ci rappresenta ogni giorno. L'Italia dimenticata. Quella di ieri, di De Pretis, Mazzini, Garibaldi, ma ancora più lontano quella dimenticata di Dante, Petrarca, Boccaccio e ancora di Foscolo, Leopardi, Pascoli, ma anche Leonardo e Michelangelo. Giotto. L'Italia di Pertini, di Pasolini, del neorealismo, di Pirandello, Montale, e Grazia Deledda. L'Italia di De Sica, Mastroianni, Sordi, Fo, Fabrizi, Totò e Eduardo. E di tutti gli altri che hanno fatto la storia nel bene e nel male di questo Paese. Che scriviamo con la maiuscola ma che fino a ieri si gridava Italia, per la maggior parte, nelle canzoni di Reitano e Cutugno. L'Italia di Mussolini e di Piazzale Loreto. L'Italia di Ustica e di Piazza Fontana. L'Italia delle contraddizioni che oggi canta l'inno, ma poi alla fine conosce solo la prima strofa. E magari la canticchia pure la mattina sotto la doccia o mentre si fa la barba, prima di addentrarsi nel traffico di una tangeziale. L'Italia che oggi celebra la Patria, ma che si ricorda di essa solo quando un militare torna avvolto da un tricolore. E lo chiamiamo eroe. Proprio come chi ogni giorno in ambulanza salva vite umane. L'Italia del Vaticano che oggi ci dice che il mondo della Chiesa è stato fondamentale per la storia dell'Unità nazionale. Ma non dice che la chiesa è stata pronta a scomunicare Garibaldi e Cavour e tutti i responsabili della Breccia di Porta Pia, tappa importantissima della storia del Risorgimento. Però è stata "fondamentale". L'Italia che oggi applaude Napolitano, ma che vestita di verde non canta l'inno di Mameli in Parlamento e esce dall'aula in consiglio regionale in Lombardia. L'Italia che a Salsomaggiore, ancora per poco, celebra Miss Italia, e più in là elegge Miss Padania e Miss Camicia Verde. L'Italia che ama la pizza, la pasta e il gelato, ma poi mangia il sushi o gli involtini primavera, anche solo perchè costano poco. L'Italia dei precari, dell'incertezza, delle rate. L'Italia che ha sostituito la parola "cambiale" con Rid, impronunciabile fino a qualche anno fa.Così come era impronunciabile week-end, ma oggi per noi è sacro. Anche solo se lo passiamo sul divano a guardare Domenica In, Costanzo e la D'Urso su Canale Cinque o le sintesi di Grande Fratello o Isola dei Famosi. E poi ci lamentiamo se ci bombardano di tv spazzatura. Ed ecco l'Italia di oggi, in tv tra Sara e Yara, e in politica tra feste e festini. L'Italia che vuole il nucleare, ma che siccome è successo in Giappone...è meglio di no! Proprio come abbiamo fatto con l' 11 settembre: gli arabi per carità! Distinguendo e generalizzando...però come corriamo a Sharm el Sheik o come ci piace il kebab. E oggi che il medio-oriente scende in piazza: no niente Tunisia nè Mar Rosso, ma è meglio scendere in piazza anche noi, con le donne, che non sono seconde a nessuno. Un concetto scontato, ma che purtroppo in Italia va ribadito. Perchè negli ultimi tempi le donne da difendere erano solo quelle che potevano essere nipoti di qualcuno o quelle che la sera provano a ballare sul tavolo di una discoteca. Oggi ci scandalizziamo per questo, ma ieri sbavavamo dietro a Colpo Grosso, alle gambe della Parietti e al seno della Fenech. Però abbiamo straordinarie capacità. La prima, quella della solidarietà di un popolo: insieme a salvare Firenza dall'alluvione o L'Aquila da un terremoto, ma anche un bambino da un pozzo a Vermicino. Insieme, davanti ad un tricolore. Quel tricolore che, si, rapprensenta tutti noi, che si voglia o no, e che dovremmo festeggiare da oggi e per i prossimi 150 anni e non solo quando scendono in campo gli azzurri o quando muore un alpino in Afghanistan.



Ha ragione de Gregori...W l'Italia. Quella che non ha paura. Di dire anche queste cose.

Mirko Polisano

domenica 13 marzo 2011

MONDO ROSA: IL TALENTO DELLE DONNE

Ho deciso di dedicare questo penesiero del mese di marzo alle donne. Perché, proprio in un momento in cui tutti lo gridano, noi in questo ci abbiamo sempre creduto. Nelle donne e nel loro talento. Ne abbiamo raccolte quattro e forse più, che ci raccontano la loro vita tra successi e difficoltà. Perché loro sul lavoro, le difficoltà le hanno trovate e le troveranno. Perché loro le scorciatoie non sanno cosa siano.

Io ne vedo tante di donne, ogni giorno. Dalle mie insegnanti che da insegnare avevano davvero tanto. Ricordo la mia maestra, madre di due figli, che si divideva tra noi, loro e i suoi problemi di salute. E non ha mai trascurato nessuno. La mia prof delle medie. Sola con un gioiello di nome Anna Chiara. Speciale proprio per quel suo cromosoma in più. E Nicoletta di educazione fisica che ha dovuto abbandonare la cattedra, ma non ha dimenticato i suoi alunni. E Patrizia che nella vita non si è mai arresa. Odiava la matematica e non gliela diede vinta. Divenne professoressa di quella materia. Una battaglia personale che è riuscita a vincere. Ma la più grande, purtroppo, l’ha persa un giorno di agosto, lasciandoci soli, nell’anno della maturità.

Poi, le donne della mia famiglia. Ma che possono essere quelle di qualsiasi altra. A partire dalle nonne, pronte ad ascoltare, forti nonostante la malattia; severe ma allo stesso tempo capaci di volersi e volerti bene. È alle “donne qualunque” che è rivolto il numero di questo mese. Chi va a lavorare per arrotondare uno stipendio che non basta, chi accompagna i propri figli a scuola, chi ha il coraggio di credere ancora nel lavoro che ha sempre sognato, ma anche a quelle sole, disoccupate e che nonostante tutto, non si arrendono.

È anche per loro che ho deciso di prendere parte alla giornata della mobilitazione, in cui in tante sono scese in piazza. Per dire basta. Basta all’immagine della bionda, bella e stupida, basta all’immagine della sciocca, basta alla carriera che cresce sotto una scrivania. Basta a chi festeggia la donna l’8 marzo, come se fosse un contentino di cui andare fieri.

C’è un bell’articolo nella nostra rubrica “Il Talento nel Mondo”, parla dei Veli di Dubai, dove le donne indossano il tradizionale velo islamico. Sono stato in Afghanistan e inutile dire del burqa e delle donne-fantasma. Sembra che nel mondo arabo i diritti della donna si vietino attraverso la religione. Ma non tutti sanno che qui c’è un clamoroso equivoco culturale. La religione islamica, infatti, non prevede nessuna copertura tipo burqa: quella cristiana, paradossalmente, sì.
La storia è interessante. Era l’inizio del 1900 quando Habubullah Khan, grande emiro dell’ Afghanistan, impose alle duecento donne del suo harem una speciale copertura che scongiurasse ogni tentazione maschile, che non fosse la sua. Più in generale, fuori dalla residenza reale, le donne dell’emiro non dovevano neppure essere guardate: e nacque il burqa, inquietante copertura che da principio contraddistinse le donne di alto ceto. Ma di religioso, appunto, non c’era nulla. Il Corano non ne parla, anzi, quando genericamente affronta l’argomento – al verso 59 della sura XXXIII – dice che le donne devono essere riconosciute, come è possibile fare con tutte le coperture islamiche tranne una, o una e mezza: col burqa, appunto, e assai spesso col niqab, che serve a velare il volto lasciando scoperti solo gli occhi. Nel tempo, tuttavia, il burqa si diffuse in tutto l’Afghanistan: e mentre i ceti elevati lo abbandonavano, quelli poveri lo facevano loro. Sembrava dovesse sparire nel 1961, in Afghanistan, che una legge ne aveva vietato l’uso alle dipendenti pubbliche: ma poi ci fu la guerra civile e il regime teocratico dei talebani giunse progressivamente a vietare a ogni donna di mostrare il volto. Il burqa divenne una regola che oggi resta discretamente rispettata anche in Iran, in parte della Palestina, del Libano, dello Yemen, dell’Arabia Saudita – nell’entroterra meno acculturato – e in generale dove ci sono musulmani sciiti. Difficilmente vedrete un burqa in Egitto, Turchia, Emirati Arabi, Kuwait, Indonesia o India.

Se uno stesse fedelmente al Vangelo, invece, potrebbe rifarsi alla Prima lettera di San Paolo ai Corinzi: «Ogni donna che prega senza velo sul capo manca di riguardo al proprio capo… Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza». Va da sé, tuttavia, che una differenza tra islamismo e cattolicesimo sta proprio nel come le due religioni si rapportano ai testi sacri e come i fedeli si rapportano alla religione stessa. Il risultato è che la veletta in testa, oggi, al limite la mette qualche vecchietta del sud all’ora del vespro, pur essendo “prescritto” dalla nostra religione, mentre il burqa in Afghanistan, e non solo, è una regola da rispettare per un buon islamico… pur non essendo scritto da nessuna parte…

Resta il fatto che fa parte di una cultura che possiamo non condividere, ma non scandalizzarci. Perché quanto accade in Italia è l’estremo opposto di quanto avviene in altre parti del mondo.


E anche qui, per fortuna, si è iniziato a scendere in piazza!

Mirko Polisano

mercoledì 23 febbraio 2011

DA «GOMORRA» AL LIBANO CON L'ESERCITO: IO, CASALESE IN MISSIONE A SHAMA

La storia del caporale Amalia Vassallo laureata in lingue e responsabile dei circuiti informatici delle forze armate.

di Stefania Melucci

Un pezzetto di Casal di Principe anche nel sud del Libano. Non lontano dal confine con Israele, nella base “Millevoi” di Shama, lavora il caporale Amalia Vassallo all’interno della missione Leonte. Ventisette anni e grinta da vendere, fa parte del 232 Reggimento Trasmissioni di Avellino: «Ho deciso di fare domanda nell’esercito tre anni fa – ha spiegato il caporale Vassallo con un sorriso – ed è una scelta che rifarei ancora una volta. Questa è la mia prima missione lontano da casa». In Libano è arrivata due mesi fa per occuparsi del funzionamento degli apparati informatici all’interno della base, tra i compiti svolti c’è anche il mantenimento delle telecomunicazioni tra Libano e madrepatria. Una giornata divisa tra computer e telefoni per risolvere i problemi tecnici di software e hardware. Una vita scandita dai ritmi precisi, con sveglie che squillano poco dopo le sei, e qualche distrazione: un po’ di musica da ascoltare con le cuffie per non disturbare le colleghe in camerata e lunghe chiacchierate con gli amici tramite chat. Una passione per il giornalismo e le lingue straniere, il caporale Vassallo dopo aver conseguito la laurea in Scienze internazionali e diplomatiche all’Orientale di Napoli con una tesi sull’allargamento ad est dell’Unione Europea, spera di fare strada nell’esercito. «Mi piacerebbe diventare ufficiale – ha concluso il caporale – così, dopo il conseguimento della laurea, potrei dire di aver messo a frutto i miei studi. Incrocio le dita».



Stefania Melucci

LIBANO: AL CONFINE CON ISRAELE. SULLA BLU-LINE TRA MINE E CORAGGIO.

Le distese di bananeti e di uliveti fanno dimenticare per un attimo la guerra lasciate alle spalle. La fertile terra libanese, nel suo ventre, custodisce ancora gli orrori del passato. I 34 giorni dell’ultimo conflitto nel 2006 hanno lasciato sul terreno centinaia di migliaia di ordigni inesplosi. Un arsenale disseminato soprattutto nella parte meridionale del paese dove l’agricoltura è l’unico mezzo di sostentamento per molte famiglie. Secondo uno studio sugli effetti della guerra in Libano, effettuato dalla organizzazione Landmine Action, le perdite del settore agricolo, a causa delle bombe a grappolo, ammontano tra i 22 milioni e i 26 milioni di dollari perché con munizioni e ordigni disseminati non è possibile coltivare un campo. Il rischio di saltare in aria è troppo elevato, come già è accaduto 272 volte, facendo registrare 28 vittime, anche se negli ultimi due anni il numero di incidenti è stato ridimensionato, grazie al lavoro di bonifica e alla prevenzione.
Secondo le Nazioni Unite, sono sessantacinque i chilometri quadrati di superficie che devono essere ancora bonificati. Mine antiuomo e anticarro, ordigni inesplosi e frammenti di “cluster” sono sul terreno. Attori libanesi e internazionali si dividono il lavoro per ripulire le aree identificate: quelle colpite dalle “cluster bombs” spettano alle organizzazioni non governative, ai caschi blu della missione Unifil sono affidate le zone con mine antiuomo e anticarro. I maggiori interventi si concentrano a sud, lungo la Blue Line, pseudo-confine tra Libano e Israele, dove operano gli sminatori del 21esimo Reggimento Genio Guastatori di Caserta. Protetti da tute tanto pesanti da rallentare qualsiasi tipo di movimento, si alternano su un fazzoletto di terra nella zona di El Boustan alla ricerca di mine antiuomo e anticarro. Qualche ordigno risalirebbe alla fine degli anni ’70. «Le mappe del campo minato sono state fornite dagli israeliani alle Nazione Unite – spiega il capitano Emanuele Amicarella, impegnato nelle operazioni di sminamento all’interno della missione Unifil – ma le condizioni atmosferiche, i movimenti della terra possono modificare queste coordinate». Una eventualità da non trascurare. Una mina potrebbe essere stata segnata sulla carta, ma non ritrovata sul terreno. È un dispositivo fantasma, marcato dai militari con un paletto con un cappuccio bianco alto poco meno di un metro e conficcato nel terreno. Una volta identificato l’ordigno, si contatta il supervisore di campo per chiedere l’esplosione. Una procedura ripetuta tredici volte dagli inizi di maggio: tante sono le mine ritrovate dagli artificieri della “Brigata Garibaldi” da quando sono missione al di là del fiume Litani. Hanno reso sicura un’area di 500 metri quadrati. Sembra un gioco da ragazzi, dove tutto è calcolato, anche se non sono ammesse sbavature perché si rischia di saltare in aria, come è accaduto ai cinquantasette sminatori che hanno avuto incidenti sul campo. I team si muovono con lentezza, spostandosi ogni giorno di un metro più in là. Per bonificare questo fazzoletto ci vorrà ancora tempo. Forse, anni.

Pubblicato dalla rivista: “Comunicare il sociale”

Stefania Melucci, Giornalista embedded Napoli

mercoledì 9 febbraio 2011

AFGHANISTAN, ARRIVEDERCI...

Raccontare l’Afghanistan non è semplice. È la storia di un paese bello quanto devastato, dalla povertà, dalla guerra, dall’ignoranza e dalla prepotenza. L’ultimo giorno lo passiamo di nuovo in centro ad Herat. Visitiamo la Mosche del Venerdì, uno dei più importanti luoghi di culto di tutto il mondo islamico. Incontriamo gli studenti, gli anziani, le donne, che pregano. Gli operai che lavorano. Qui c’è la produzione delle maioliche utilizzate per la realizzazione di quasi tutte le moschee del mondo. Parliamo con il maestro, è un saggio con la barba bianca e lunga. Ci affascina già soltanto il suo aspetto. Mi dice del lavoro, della vita dura e difficile qui in Afghanistan. Ha visto i russi e gli americani, è sopravvissuto al regime dei talebani e ascoltare le sue storie è come leggere un bel libro. Usciamo fuori, e la percezione della realtà cambia. Un paese che comunque ti resta del cuore. Come ti resta nel cuore la sua gente. Ha ragione Daniel quando dice che l’Afghanistan è un qualcosa di cui non puoi fare a meno. Perché forse davvero basta la tua presenza per aiutare chi ha bisogno, sia questo uzbeko, dari, pasthun. Andiamo via, lasciando qualcosa in sospeso. Come se quel poco che abbiamo fatto, che sia solo raccontare le difficoltà di una terra e l’operato di quanti qui lavorano, non sia sufficiente. Di questo viaggio porteremo con noi tante piccole cose che fanno grandi gli uomini. La paura e il destino, perché l’una non deve mancare e l’altro ci deve assistere. E così ripensiamo a quel razzo che non è partito in una fredda notte di fine dicembre, a quel viaggio rimandato… lì nella terra di nessuno, a quel kamikaze saltato non lontano da noi, a quell’ordigno esploso poco dopo il nostro rientro in base. Pensi e ti chiedi perché. E ognuno trova le sue risposte. Ogni volta che fai la valigia, è sempre tempo di bilanci. E a questi aggiungi dell’altro. Il senso di umanità, di dignità, di riscatto di un popolo che non vuole padroni e che vuole vivere secondo i suoi ritmi e i suoi tempi. Sempre fedele a non tradire l’antico valore dell’ospitalità. Torniamo a casa con la barba più lunga e con un po’ di raffreddore, preso tra tende ed elicotteri, e ci vengono in mente gli insignificanti episodi di questa esperienza. All’inizio non gli dai peso, ma quando stai per concludere il tuo viaggio, ci ripensi e resti con un sorriso sulle labbra. Le domande di Daniel sugli orari, i nomi e i gradi…che mi sembra essere ritornato per un attimo al mio quotidiano lavoro di ufficio stampa, al racconto di Vincenzo che parla di suo figlio, alle mille avventure di Antonello in giro per il mondo, ad Anna sempre in ritardo e a Milla che si aggira per la base con un sorriso gentile per tutti. C’è anche Maria Clara, ogni volta che la sera a mensa mangio la frutta. L’aereo parte per Roma. L’adesso è già passato, e già pensi al prossimo viaggio. Ti guardi indietro e c’è il volto di chi hai lasciato: Hamidullah e il suo piede ferito, l’ingegnere del ristorante e i suoi racconti da ex combattente, Mir che ti porta in giro per la città, e si. C’è anche Matteo. A lui ci pensi, spesso in questi giorni…e ti chiedi perché.

Mirko Polisano

AFGHANISTAN, MATTEO L'ULTIMO VIAGGIO...

La notizia non è stata ancora diffusa, ma in base a “Camp Arena” c’è un clima teso. Si rincorrono voci e indiscrezioni. Gli sguardi che si cercano per una conferma, mentre all’ufficio pubblica informazione di Herat c’è un via vai di gente e telefonate. Da Roma, da qui, dove i giornalisti affollano gli uffici. Poi, gli indugi vengono rotti. Un comunicato di tre righe: “militare italiano perde la vita in Gulistan”. Inizia così: è il gelo. Si tratta di Matteo Miotto, 24enne veneto di Thiene, in forza al 7° reggimento alpini di Belluno. Caporal maggiore, era in servizio in torretta nella C.O.P. (Combat Out Post) Snow in Gulistan, dove è di stanza la Task Force South East del contingente italiano dispiegato in Afghanistan, quando in uno scontro a fuoco con uno o più insurgents è stato prima ferito e poi ucciso.Nella camera ardente allestita per il caporal maggiore Matteo Miotto, la commozione ha regnato su tutto. Sulle facce dei suoi commilitoni, su quelle degli altri alpini, che, forse neanche lo conoscevano, ma come travolti da uno spirito di partecipazione globale hanno voluto esserci per il suo ultimo saluto qui in Afghanistan. Hanno voluto esserci come gli amici che hanno piantonato la salma tutta la notte. Hanno voluto esserci come noi, e come tutta l’Italia che da domani, all’arrivo a Roma, gli starà accanto, almeno per qualche giorno, almeno fin quando non si spengono i riflettori mediatici. Un ragazzo di 24 anni, strappato alla vita troppo presto, in un paese dove a regnare non sono solo i signori della guerra ma anche i clan, i ribelli, i combattenti. Lo scrive anche Matteo nella lettera che sta ribalzando di sito in sito. Strappato alla vita in modo troppo crudele, nel giorno dell’ultimo dell’anno, quando magari la sera si sarebbe preparato per andare ad una festa organizzata insieme ai suoi compagni di avventura, o sventura, dipende dai punti di vista. E qui, in Afghanistan, i punti di vista sono sempre labili, molteplici. A seconda dell’orientamento, prima i russi, poi gli americani, poi ancora i mujaedin, i combattenti, ora gli insurgents. Gli stessi che con un colpo diretto hanno fatto fuoco e centrato il bersaglio. Un bersaglio che ha un nome e un cognome: Matteo Miotto. Che questa volta non potrà rispondere “Presente!” o “Comandi”, quando lo nominiamo. Non potrà riabbracciare i suoi genitori, separati, ma uniti nel dolore, che quella notte di San Silvestro non la dimenticheranno mai. Non potrà raccontare ai suoi compagni di tenda quello che ha fatto oggi, rientrando da una giornata in torretta. Però il cuore di Matteo porterà con sé tante emozioni che un posto come questo ti offre di continuo. Quelle belle, come la speranza e la voglia di riscatto a lungo inseguiti dal popolo afghano, come quei bambini con i vestiti usati e le scarpe nuove, perché regalate dai nostri soldati, e magari anche da Matteo. Quelle brutte, come i pensieri che si fanno nel lince, come gli ordigni pronti ad esplodere. Nel pomeriggio, il comandante del contingente italiano in Afghanistan, il generale Marcello Bellacicco ha tenuto un incontro con i giornalisti. Ha parlato della situazione in Gulistan, area tra le più sensibili e ha annunciato più forze armate afghane per permettere ancora di più l’allargamento della bolla di sicurezza. Poi un pensiero ai ragazzi, ai suoi uomini, pieni di spirito di sacrificio e di servizio, non solo per la patria ma anche per le altre popolazioni in difficoltà. Ha parlato anche di orgoglio, quello di Matteo per il suo essere alpino, tanto da tatuarsi lo stemma della brigata “Julia” e quello che devono avere i genitori per il figlio che non c’è più. “Devono essere orgogliosi di Matteo - ha ribadito- come lo siamo tutti noi”. “Ora Matteo cammina su montagne più belle di queste- ha detto invece il cappellano militare nel corso della sua omelia, durante la messa di suffragio di oggi- l’imprevista chiamata del Signore per noi è difficile da capire, dio ha modo di pensare e agire diversi dal nostro”. Già per noi è difficile da capire tutto questo. Se potesse essere da qualche parte, ora, forse è vero, Matteo starebbe sulle montagne, come un buon alpino. Magari a rincontrare suo nonno e a farsi raccontare una di quelle storie. Ma no sulla guerra, una divertente per ridere e scherzare. Intanto, il C130 dell’Aeronautica Militare è partito. Matteo è lì dentro, avvolto da un tricolore. Domani rientrerà in patria. Noi restiamo ad Herat, in base c’è un monumento ai caduti. Ci passiamo davanti e leggiamo. Manca Matteo, l’ultima penna spezzata. Troppo in fretta.
Mirko Polisano

AFGHANISTAN, IN GIRO PER HERAT

Herat- 31.12.2010

“Khorasan è l’ostrica del mondo e Herat la sua perla”, recita così un vecchio proverbio riferendosi alla supremazia di questa città afghana nella regione che in epoca medioevale includeva gran parte dell’Iran e del Turkmenistan. Oggi, nel 2010, pardon, ormai nel 2011 non possiamo smentire questo antico adagio, dato che Herat, patria di poeti, studiosi, e filosofi si distingue tutt’ora come fulcro culturale del paese. Da Gengis Khan a Marco Polo, senza dimenticare gli altri invasori, in molti hanno cercato di sottometterla, ma Herat ne è sempre uscita a testa alta, puntando sulle sue bellezze e sui suoi abitanti, gentili e ospitali, come gran parte del popolo afghano. Nel briefing mattutino, la decisione che caratterizzerà la giornata di oggi. Usciamo. Da soli, senza la nostra scorta. Per conoscere questa città, capire i suoi cittadini: uomini, anziani, donne, che ci raccontano la loro vita. Chiamiamo Mir, un afghano di Herat, che ci fa da autista, da guida e da interprete. Daniel non vede l’ora e monta la macchina fotografica. Io, pronto a raccogliere le storie di questa gente. Per strada, come ho sempre fatto. È venerdì. Un giorno sacro per l’Islam. Ci avventuriamo nella Toyota bianca di Mir che parla solo inglese. Pensiamo di trovare strade deserte e saracinesche abbassate. Invece, è un brulicare di colori. Dal finestrino alla mia destra, è un continuo andirivieni di carretti sgargianti, motociclette, macchine improbabili, ragazzi che giocano a pallone, donne in burqua, e palazzi distrutti dalla guerra. Tocchiamo con mano, le meraviglie di questa terra. La “Big Moschea”, come la chiama Mir, è il santuario di Gazar Gah, uno dei luoghi più sacri di tutto l’Afghanistan. Qui incontriamo banchetti di venditori ambulanti, bancarelle di cappellini e libri religiosi, due ragazzi che su una panchina sorseggiano del thè, e poi una serie infinita di mutilati, diseredati che cercano soldi, aiuti. Non ci sono mai stato, ma sembrano le immagini che la televisione manda in onda quando si parla di Bombay ai tempi di Madre Teresa. È questa stessa immagine che vediamo nelle altre strade della città: sui marciapiedi, davanti ai negozi. Polvere, tappeti a terra e bisognosi. Il caos frenetico di una vera casbah ti porta a correre. Con Mir a nostro fianco ci avventuriamo tra i vicoli, tra i mercanti della città vecchia. È una fila interminabile di tende, arazzi, scarpe e bracciali dell’artigianato locale, ma anche di venditori di datteri, noci, pane fatto dai bambini e dolciumi lavorati a mano. Vogliamo comprare tante cose, ma il tempo è tiranno e poi con l’euro si fa poco da queste parti. Altra sosta ai minareti di Musalla, Mir ce li mostra e scherza con noi dicendo che li ha costruiti il progettista della torre di Pisa, perché pendono da un lato. Arguto. Anche se la realtà è diversa: i cinque minareti risultato particolarmente malinconici, baciati dall’ombra del sole. La strada che li collega favorisce il traffico e le vibrazioni prodotte dai veicoli di passaggio danneggiano le fragili fondamenta, rese già fragili dalla guerra. Usciamo dal sito e troviamo una brutta sorpresa: a Mir hanno rigato la macchina. Non lo diciamo, ma lo pensiamo, che forse è colpa nostra perché ha fatto da guida e da interprete a dei reporter occidentali. Per le vie della città intanto si sente il grido di preghiera. Entriamo nel complesso millenario della cittadella. Oltre tremila anni di storia ci passano davanti. È quasi ora di pranzo. Abbiamo fame e chiediamo a Mir dove possiamo andare a mangiare qualcosa di tipico. Ci porta in un ristorantino del centro. Mangiamo all’aperto sotto il sole, sui tappeti e senza scarpe, come è abitudine da queste parti. Riso, montone e tutti piatti tradizionali della cultura gastronomica afghana. Accanto a noi, il proprietario. È inevitabile scambiare con lui due parole. Proprio come facciamo a Roma, quando, ad ora tarda e a tavoli sparecchiati, con il ristoratore ci fermiamo a parlare di vino e cacciagione. Non sappiamo come si chiama, perché per tutti è l’”Ingegnere”. Così, mi racconta la sua storia. E’ laureato in ingegneria edile, è un tagiki e gestisce questo grazioso ristorante che accoglie una ventina di persone a pranzo e altrettante a cena. “Sono sempre aperto- spiega- anche nei giorni festivi, non posso permettermi di non lavorare”. Gli chiediamo dell’Afghanistan, mi risponde con una percentuale il 98% della popolazione è povera, il 2% benestante, “al contrario dell’Italia- afferma- dove i dati sono al contrario”. Ribattiamo con un “so e so”, così e così e ci scherziamo su. Poi mi racconta del 1982, dell’invasione russa. Che era una guerriglia continua e che si doveva scappare dai villaggi alla città. Così l’arrivo a Herat. E gli chiediamo perché non fa l’ingegnere. “Qui non c’è bisogno di ingegneri. I progetti vengono valutati dagli internazionali ed eccomi qui a cucinare riso e pollo”. Ci parla dei rapporti con l’esercito italiano, di Isaf e che è necessario rimanere in Afghanistan per il bene del paese. E sul domani? “Impossibile pensarci. L’Afghanistan non ha una prospettiva futura. Forse solo un barlume di speranza e basta”. Rientriamo sulla via di casa, della base, pardon. Al benzinaio, troviamo un sedicenne in moto. Lo intervistiamo. “La motocicletta è la mia passione- dice in un perfetto inglese- l’ho comprata nuova”. Anche lui non ha progetti futuri e non solo come l’”Ingegnere”, ma come tutti i ragazzi della sua età. Come tutto il suo popolo. Ma ha il sorriso sulle labbra. Quel sorriso, che a noi viene meno quando arriviamo in base. In Gulistan, dove dovevamo essere oggi, c’è stato un conflitto a fuoco. È morto un ragazzo. Uno dei nostri. Speriamo che questo 2010 vada via in fretta.

Mirko Polisano

giovedì 27 gennaio 2011

Auschwitz e Birkenau: pensieri e emozioni dei ragazzi delle scuole del territorio.

Il dolore di un uomo

L’inferno è questo
Ed io mi ritroverò fermo.
Una camera grande e vuota
Ed io aspetto qualcosa.

Non ho più niente addosso,
i miei abiti sono un fagotto.
Perché nessuno mi viene a cercare?
Avrò fatto qualcosa di male?

Entra un vento gelido,
il freddo mi ha rapito.
La testa mi hanno rasato
È successo tutto per caso.

La mia mente torna a casa
Insieme alla mia mamma amata
Sento ancora più dolore
E non mi escono più parole…

(Scuola Media Giuliano da San Gallo – Ostia).

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Ricordi

Ricordi…
Dolci aspre immagini
Sfocate
Frecce affilate…
Urla soffocate
Dolore pulsante,
dolore invadente…
Altri colpi…
Altre innocenti vite spezzate
Senza ragione…
Solo per il loro Dio…Per una stella…
Fucili assassini
Ingordi di animi umani;
altri spari
altro dolore…

Ma qualcuno spera
Qualcuno crede
Qualcuno prega
Che tutto ciò finisca
Che sia solo vago,
doloroso, incancellabile ricordo.

(Giulia Chierici, Classe III B – Scuola Media Vivaldi- Ostia)

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La Pazzia:

Le ombre del passato pesano,
ritornano nella mente di chi le ha vissute,
vagano in quella di chi le ha ascoltate.

Non ci sono perché accettabili,
giustificazioni plausibili
l’uomo può essere disumano,
la follia può generare mostri…

Cos’è un incubo?
Purtroppo è la triste realtà
Migliaia di vittime,
anime innocenti,
ebrei ingannati e costretti a soffrire…

Per cosa tutto ciò?
Per una razza pura?
I nostri cuori piangono,
ma le lacrime non riescono a lavare il dolore,
La sola speranza che ci rimane
È il ricordo che, incancellabile,
ci aiuti a non ripetere quel terribile errore.

(Valentina Carami III B- Scuola Media Vivaldi - Ostia)



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27 GENNAIO 2011


Compatti come pacchi di dolore
I deportati
Colmavano il convoglio
Che correva sui binari.
Nessuna luce brillava
O inteneriva le fessure dei vagoni.
Così la vita
Divenne vertigine crudele
E campi intrisi di ulteriori orrori.
Era vecchissimo il mondo
In quel tempo desolato.



Oggi rabbrividiamo di vergogna
E perché non si ripeta quel dolore
Ricordiamo tutti i Morti
Che non possiamo sostituire.

(Classe III B Scuola Media Vivaldi – Ostia)