mercoledì 27 gennaio 2016

POLONIA, BACKSTAGE

Cracovia (Polonia)- Arrivammo a Cracovia di mattina presto. Gennaio di qualche anno fa. Inverno rigido, strade impraticabili e neve. L'aeroporto era molto distante dal centro città, dove alloggiavamo. Un mini bus mezzo ammaccato ci avrebbe dovuto portare a destinazione per pochi zloty, l'euro ancora era un miraggio. Metà del viaggio e un gran rumore ci sveglia dal sonno ripreso dopo un'alzataccia alle cinque di mattina. Abbiamo bucato sull'autostrada. Il conducente non si perde d'animo e tra le auto che sfrecciano cambia in pochi minuti la gomma. Si riparte. Sosta in albergo (chiamarlo così è un parolone) e poi in giro per sentire gli umori della gente e iniziare a scoprire questa città da raccontare. Non siamo in grado di stare tanto a lungo al freddo e troviamo riparo in un pub: due birre e due cheeseburger. Dopo un pomeriggio di riprese, andiamo a cena con Maria e Mirko, i nostri contatti che ci accompagneranno in questo reportage. Si mangia presto. L'appuntamento è alle sette in uno dei più rinomati locali del centro. Carne alla griglia e una serie di specialità polacche. <<Dovete assaggiare tutto>>, ci dicono. Maria ha con sè un dizionario polacco-italiano che le suggerisce qualche parola che non sa dire o che non conosce. Grazie a loro, prendiamo appuntamento con una guida italiana che lavora nel campo di concentramento di Auschwitz. Riusciamo ad accordarci per il nostro reportage. L'indomani, infatti, sarà il 27 gennaio l'anniversario della fine della Shoah. Lavoriamo senza sosta e riprendere, girare e intervistare in quei luoghi fa cadere anche quella barriera di distacco che - solitamente- si deve creare tra noi e le Storie che raccontiamo. Testimonianze uniche che resteranno nel nostro vissuto di uomini, prima che di giornalisti e reporter. Abbiamo sete di conoscenza. Per caso - come nascono le migliori notizie- ci imbattiamo in un personaggio. Eligio, ex fotografo finito a organizzare viaggi con le scolaresche di Latina e Formia. Ha organizzato una visita alla città di Oswiecim (il nome originale polacco di Auschwitz) per la solenne cerimonia della Giornata della Memoria prima nel centro cittadino, poi a Birkenau. Cerchiamo di convincerlo a portarci con lui. Non possiamo perdere l'occasione. Neanche a farlo apposta il suo albergo è vicino al nostro, tanto da poterlo raggiungere a piedi. Loro partono presto, ma per noi non è un problema. Altra sveglia all'alba. Siamo su quel pullman circondati da un'orda di studenti che fanno a gara per accaparrarsi gli ultimi posti. Incontriamo il sindaco di Auschwitz, tanti sopravvissuti, finchè sulla spianata non compare lui. Un dissidente ucraino. Si presenta con il pigiama a righe che indossava quando era prigioniero di Birkenau. Tutto quello che abbiamo visto, raccolto lì fa parte del racconto giornalistico e mi risulta davvero difficile - per emozione e dignità di contenuti- riportarlo in questo breve "back stage". Si fa notte, la scolaresca è andata via e noi non sappiamo nemmeno come tornare. Ci fermiamo ad una fermata dell'autobus e Attilio, un italiano conosciuto per caso ci indica la linea giusta per arrivare in stazione. Mirko e Maria ci danno appuntamento nel teatro principale di Cracovia. Siamo stati invitati dalla Provincia a vedere uno spettacolo. Arriviamo stanchi e in ritardo. Ci sediamo dove capita e non sapendo la lingua già vogliamo scappare. Non si tratta di una commedia teatrale, bensì di una serata di cabaret. E' polacco, si ma non sappiamo come ridiamo anche noi pur non capendo nulla. Alla fine da "giornalisti" siamo invitati alla cena di gala riservata alle autorità. La presidente della Provincia è entusiasta e ci accoglie con grande affetto. Il buffet è a base di zuppe. Due varietà: alla carne o ai funghi. Roberto, il cameraman partito con me, storce un po' il naso. Ma dopo tutto quello che abbiamo visto, sentito, toccato con mano non possiamo certo darla vinta a qualche capriccio da viziati. Si dorme poche ore. Di notte siamo già in viaggio verso l'aeroporto. L'indomani mattina a Roma abbiamo un'ultima intervista. Siamo veramente stanchi. Roberto è sempre meno propositivo. <<Ah Polisà bbasta!>>. Ovviamente l'abitazione dove dobbiamo recarci è all'uscita della metro opposta a quella scelta da noi. Percorriamo tutta la circonferenza di piazza Vittorio. Marisa è un'insegnante in pensione. La sua storia ci colpisce come e più di quelle degli altri. In meno di 72 ore, avremmo dormito poco più di quattro ore di fila per notte. Ritorniamo a casa, finalmente e guardiamo tutto il materiale. Un lavoro che ci ha sicuramente arricchito come uomini più che come professionisti. 

Un viaggio  senza il quale, forse, oggi non saremmo gli stessi. 

Mirko Polisano

Io e Roberto a Cracovia (Polonia)
  

mercoledì 14 ottobre 2015

TANZANIA, QUANDO DARE E' PIU' BELLO DI RICEVERE...

Roma- Matteo ha 17 anni. E' mio cugino e ogni tanto si ferma ad ascoltare le mie "Storie", quando gli parlo di viaggi e di paesi lontani. Si è ricordato dell'Africa e di quei ragazzi che giocavano con un pallone fatto di buste di plastica. Chi alternava uno scarpino a un piede scalzo, perchè l'altro si era perso. Gli raccontai di quando portammo le nostre magliette di quando giocavamo lì ai giovani della Tanzania e dei loro sorrisi nell'indossare i numeri 10 dei nostri Baggio, Vieri e Del Piero. Così mi ha preparato una borsa con le sue magliette e mi ha detto: "la prossima volta che vai portagliele". Ci ha pensato Carla, donna straordinaria a farle arrivare laggiù, in quei villaggi poveri e sperduti. Ecco Moody e Abet con le magliette di Matteo, 17 anni compiuti oggi. Quando dare è più importante di tutti i bei regali ricevuti in questo compleanno.

Mirko Polisano

Mody e Habet dalla Tanzania con le magliette di Matteo

martedì 25 agosto 2015

ROMA, SONO DAVVERO SICURI I NOSTRI CIELI?

Roma- I cieli di Roma sono sicuri? Qualcuno inizia ad avere dubbi. L’elicottero che ha fornito la copertura aerea al feretro di Vittorio Casamonica con tanto di caduta libera di petali di rose era in mano a un 27enne. A.G., originario di Napoli, che con quell’ultraleggero ha fatto ciò che voleva, dovrà chiarire la propria versione dei fatti. A partire dalla richiesta del “notam”, il piano di volo che l’Enac concede per il decollo. L’uomo non poteva non sapere del divieto valido per i monomotore nel cuore di Roma. L’ente nazionale per l’aviazione civile, responsabile per competenza, non vuole fermarsi solo alla sospensione della patente ma sta pensando a una vera “no fly zone” per i velivoli privati. Stesso provvedimento ora in vigore a Milano per tutta la durata dell’Expò. Può sorvolare solo chi avrà l’autorizzazione della Prefettura. Nella ricostruzione della dinamica dell’accaduto, alla bega civile si affianca quella militare. Qualcuno ha comunicato via radio che c’era un velivolo a pochi passi da un obiettivo sensibile delle forze armate? A cinquecento metri in linea d’aria dalla chiesa San Giovanni Bosco, sorge il COI. Il comando operativo di vertice interforze che offre supporto militare in casi di straordinaria necessità ed urgenza. Una sorta di “Pentagono” italiano. Possibile che radar e antenne non abbiano registrato nulla? Interrogativi che imbarazzano anche gli ambienti della Difesa, che pur vogliono restare al di fuori da questa storia. “È una questione che interessa l’aviazione civile”, commentano laconici da via XX Settembre. Il decollo immediato dei caccia non sarebbe potuto avvenire nei pochi istanti della deviazione non autorizzata. “Non bisogna cadere in allarmismi   – è quanto trapela da Palazzo Aeronautica-  nessuno al mondo è in grado di controllare un oggetto non identificato che si alza da terra di trecento metri”. L’ordine di «scramble», cioè di decollo immediato su allarme, scatta mediante una rete di sensori che coinvolge una serie di informatori dall’intelligence alle forze dell’ordine, fino ai testimoni oculari. “L’aeronautica - ribadiscono fonti militari- veglia attraverso una rete radar che traccia il percorso. Un elicottero piccolo come quello che ha volato sui cieli di Roma l’altro giorno – fanno intendere i piloti della forza armata - poteva non essere stato individuato dal radar”. L’unica spiegazione plausibile resta quella che il giovane pilota possa aver comunicato la fase di atterraggio, dopodiché abbia disattivato il trasponder, l’attrezzatura che manda messaggi alla torre di controllo, e effettuato la deviazione non autorizzata. Una manovra che ha fatto saltare l’intero sistema di sicurezza.

Mirko Polisano

pubblicato su "Il Messaggero" - edizione nazionale il 24.08.2015


venerdì 31 luglio 2015

AFGHANISTAN, IL DRAMMA DI HAMIDULLAH

Farah (Afghanistan)- Le montagne segnano il profilo di questo territorio. Avvolte da quella che può sembrare una fitta nebbia, in realtà è sabbia. È polvere. Ti guardi intorno, pronto a raccogliere storie che sembrano tutte uguali, che parlano di uomini che non hanno paura di sacrificare se stessi. Poi, da lontano vedi arrivare un bambino. È in braccio al padre e bussa alla porte della base. Le perquisizioni di rito, e la visita in infermeria. Così ho conosciuto Hamidullah. Quella di Hamidullah è una storia che ti resterà dentro. Perché parla di un bambino di cinque anni, figlio di questo paese, della guerra e della povertà. Cinque anni, forse. Perché qui in Afghanistan, l’anno si riesce più o meno a recuperarlo, il giorno e il mese di nascita è a dir poco impossibile. Così accade per Amir, che non si sa neanche se è il padre di Hamidullah o per Abdullà, un presunto zio. Insomma, nessun documento, anagrafe zero e l’ultimo censimento risale alla fine degli anni ’70 e fu fatto dai russi. 

Hamidullah è arrivato in infermeria qualche mese fa con un piede ferito. Aveva una pietra conficcata nella pianta destra. La ferita ha fatto infezione e se non fosse stato per l’intervento dei medici militari italiani, non avremmo potuto nemmeno conoscerlo.

“Questa storia è una storia che tocca i sentimenti – mi dice commosso e allo stesso tempo entusiasta, Andrea Polo, il medico militare che ogni giorno visita Hamidullah- in un villaggio qui in zona abbiamo incontrato questo bambino e mi ha subito colpito il buco nel piede che, secondo me, è una visione emblematica della povertà, della miseria e dei danni della guerra nei confronti della popolazione infantile. Siamo convinti che aiutare Hamidullah, da una parte, significhi accendere una luce nuova su questa popolazione, che nemmeno il mondo sa che esiste…e aiutare questo bambino, almeno noi lo speriamo, è aiutare tutti i bambini dell’Afghanistan”

Restava un altro problema, però, quello della schiena, dove era stata riscontrata una massa tumorale. Non si sa di che entità. Occorreva un intervento medico in Italia, e il reggimento dei Lagunari “Serenissima” ha fatto il tutto per agevolare le lunghe pratiche burocratiche italiane ed europee. Con la consegna dei documenti, era stato raggiunto un primo obiettivo. Poi, l'empasse. Dalla notte al giorno, la famiglia di Hamidullah ha lasciato il villaggio e la casa dove viveva. I talebani hanno minacciato il padre: "se ti fai aiutare dagli occidentali, è la fine". Da qui la fuga: le possibilità di Hamidullah di avere un futuro si sono dissolte nel nulla.

Io, Hamidullah e la sua famiglia


È strano come lo sguardo di un bambino ti possa restare dentro. Non dimenticherò mai il volto di Hamidullah, che per me rappresenta tutto il mio Afghanistan. Racchiude l’espressione di un paese, anch’esso sofferente ma pieno di speranza. Quegli occhi ti restano dentro e quando vai via, non puoi far altro che pensarci e ripensarci.
Andrea è un medico straordinario e idealista ai limiti della follia, convinto che salvare il piccolo paziente, significa salvare tutti i bimbi e quindi tutti noi dalla pazzia della guerra. Gira il solito detto, che poi in tanti hanno riadattato un po’ per tutti i paesi dove la guerra si combatte con la vita, che recitava così: “noi abbiamo gli orologi…loro il tempo”. Chissà se anche Hamidullah avrà del tempo...

Mi piacerebbe incontrarlo di nuovo Hamidullah, magari proprio del suo paese. Ma non adesso. Tra venti anni, forse. Quasi come accade in una favola. Perchè significherebbe che è riuscito a farcela e soprattutto che è diventato grande. Ma non potrà essere così, purtroppo. Il finale "e vissero felici e contenti" non è stato scritto per chi vive in Afghanistan.

Mirko Polisano

martedì 14 aprile 2015

BOKO HARAM UN ANNO DOPO...ASPETTANDO IL PROSSIMO HASTAG

Boko Haram, "Bring Back Our Girls", un anno dopo. Da Michelle Obama al silenzio di oggi. Loro non sono Charlie e forse nemmeno vogliono esserlo. Noi, invece, vogliamo solo riflettere su un'informazione che si preoccupa più dei testimonial che delle notizie.

Al prossimo cartello, allora. Al prossimo selfie da Oscar e alla prossima nomination per una secchiata d'acqua. Aspettiamo di sapere solo quale sarà il prossimo hastag

#cercasinotizie

Michelle Obama in favore delle ragazze rapite da Boko Haram in Nigeria


Mirko Polisano

martedì 31 marzo 2015

AFGHANISTAN, LA MANOMISSIONE DELLE PAROLE

Può una non-guerra produrre una pace. Non c’è il punto interrogativo a questa non domanda. Ma serve a dare un’idea della situazione Afghanistan. Difficile e impervia come questo paese che vive le sue contraddizioni. Mille e infinite e dove anche le parole perdono il loro senso. Qui dove la notte non è notte per il fascio di luce delle brillanti stelle, dove la partenza non è mai un arrivo, perché ti sposti di base in base, dove la terra non è ferma ma trema sotto gli anfibi ogni volta che si esce. Uno stato che non è nazione, ma un insieme di tribù. Antiche e secolari. Le donne che non sono donne e i bambini che non sono più bambini. La giustizia è fatta di soldi, i diritti non sono quelli umani ma quelli acquisiti dal potere. Un angolo lontano del mondo, anello di congiunzione tra la Cina e l’Iran, tanto da ispirare il Grande Gioco di Kipling.  I russi lo occupano, gli americani si oppongono e armano i ribelli gli stessi ribelli che combattono l’invasione di oggi degli americani con le armi degli americani. Assurdo, come una missione di pace che però è fatta di fucili e mezzi blindati. Di linea del fuoco e di mitragliatrici. Di droni e di copertura aerea. E’ difesa che però diventa attacco. Le parole cambiano, si mimetizzano quasi. Hanno un altro senso. Anche quelle di chi non ce l’ha fatta hanno sempre un sapore diverso e se ci pensi anche più amaro. Giorgio se ne è andato a Kabul nel 2006. Il soldato buono: voleva sorprendere i bambini del Kosovo portando dei cornetti, ma loro non conoscevano né dolci, né colazioni… così Giorgio ritorna in quel villaggio e stavolta con del pollo arrosto. Amava il mare e i bambini. Oggi al Bambin Gesù c’è un macchinario che porta il suo nome. Un regalo di sua moglie Francesca. Alessandro ripeteva sempre la solita frase a mamma Dora: “Ti prometto che torno”. Parole al vento, quel vento che tante volte ha sfidato gettandosi con il paracadute. La passione per il basco amaranto e i Metallica. Disinnescava bombe, una di queste lo ha tradito. Francesco non voleva partire stavolta. Quasi se lo sentiva. Il saluto all’ascensore, senza voltarsi e senza guardarsi indietro. Da buon alpino. E’ ora di andare: Farah, Shindand, Bala Baluk. Nomi impronunciabili e posti da cui non è tornato. Oggi la battaglia di mamma Rosa e papà Gino è la ricerca della verità. David i libri li divorava. “Sull’amicizia e sulla lealtà ci avrebbe puntato anche l’anima” proprio come nella famosa canzone degli 883. Il suo sorriso e i suoi occhi rivivono in quelli di mamma Annarita. Amava la filosofia e credeva in Dio. Quel maledetto giorno nel deserto lontano da Bala Murghab gli hanno trovato un Vangelo. Lo aveva in tasca.


Giorgio Langella, Alessandro di Lisio, Francesco Positano, David Tobini e gli altri 49 caduti italiani dell’Afghanistan. Nessuno li ha mai raccontati così per quelli che sono: uomini prima di essere soldati. Onori a loro. Figli e vittime di una non-guerra che ha prodotto una non-pace.  

Mezzo Militare in Afghanistan


     


Mirko Polisano

sabato 28 febbraio 2015

AFGHANISTAN, IL TESORO NELLE GROTTE DI KABUL

Kabul- La Libreria nazionale di Gerusalemme ha reso pubblici una trentina di documenti ebraici, vecchi di mille anni, che sono stati scoperti casualmente in alcune grotte dell’Afghanistan orientale in aree controllate dai Talebani. Sono stati venduti di recente a quell’Istituto ”per una cifra considerevole” da commercianti di nazionalità imprecisata e fanno parte di un ”vero tesoro”, ancora all’estero.

Esso comprende centinaia di documenti provenienti dalla stessa zona che attorno all’anno Mille aveva forte rilevanza commerciale trovandosi lungo la storica ‘Via della Seta’. Un esperto della Libreria nazionale, il professor Haggai Ben Shammai, ha precisato alla stampa che parte di quei documenti sono scritti in ‘arabo ebraico’ (parole arabe riportate con lettere ebraiche) e in ‘persiano ebraico’ (parole farsi in caratteri ebraici). Altri ancora sono in scritti in una forma di ebraico che all’epoca era in uso a Baghdad. Dai testi si comprende che gli autori provenivano da comunità lontane fra cui Aleppo (Siria) ed Egitto.

Lo scritto più importante è attribuito al rabbino di origine egiziana Saadia Gaon, passato alla storia per aver tradotto in arabo i principali testi ebraici e per aver diretto una importante scuola rabbinica di Babilonia.

Mirko Polisano

Le grotte di Kabul (Afghanistan)