mercoledì 24 dicembre 2014

NATALE 2014, IL SELFIE PIU' BELLO

 Il nostro "selfie" più bello nel sud della Tanzania. Dal bisogno degli altri conosci e capisci il superfluo. E' la nostra missione, e forse anche un po' il senso del Natale. Auguri...Mirko


domenica 30 novembre 2014

ISIS, PRONTO L'ATTACCO NEL CUORE DELL'EUROPA?

Un normale posto di blocco che scopre un traffico legato al terrorismo internazionale. È ancora top secret l’operazione di Polizia che l’altra notte ha rivelato quanto le infiltrazioni del califfato Isis siano presenti a Roma. E’ sabato notte nella Capitale quando una macchina di lusso con a bordo due magrebini non si ferma all’alt intimato dalle forze dell’ordine. In pattuglia ci sono gli agenti del commissariato Romanina che fanno scattare l’inseguimento. Gli stranieri, nonostante siano braccati e abbiamo il 113 alle costole, riescono a farla franca abbandonando l’auto e scappando a pieni perdendosi per le campagne tra il grande raccordo anulare e la circonvallazione Orientale. La macchina è ferma e da una prima ispezione emerge un inquietante ritrovamento: due pistole. Pezzi di tecnologia avanzata, non roba da normali delinquenti. Dal numero di targa si risale al proprietario, uno dei due fuggitivi, che abita in un residence lungo la Cristoforo Colombo tra l’Infernetto e Acilia. Parte il blitz e nell’appartamento dell’uomo c’è la moglie. Lo scenario cambia di nuovo e qui gli agenti della polizia si rendono subito che l’affare si ingrossa. La donna, una cittadina italiana ha in casa bandiere dell’Isis, articoli di giornale inneggianti al Califfato e cosa ancora più inquietante delle mappe della città di Roma con possibili obiettivi da colpire. Sulla vicenda così delicata, il riserbo è oltre ogni previsione e tutti gli elementi sono al vaglio degli inquirenti. Tutto fa pensare a una cellula terroristica con base operativa proprio sul litorale romano. La donna è stata identificata e condotta in commissariato e ora dovrà chiarire la sua posizione. Di certo, è solo il punto di partenza di un’inchiesta appena iniziata e che non esclude altri possibili collegamenti con una rete di infiltrati che opera tra Roma e la sua periferia. I jihadisti sunniti dello stato islamico dell’Iraq e della Siria avevano già intimato l’occidente e promesso di conquistare Roma. Ora, spetterà all’intelligence italiana esaminare la portata dei fatti, inquadrandoli in una reale minaccia per il paese o piuttosto considerarli un singolo episodio a sé stante, frutto del fanatismo del momento. D’altro canto era stato lo stesso ministro dell’Interno Alfano a definire elevato il rischio per l’Italia, promettendo misure severe contro la minaccia terroristica. Il titolare del Viminale ha annunciato, nei giorni scorsi, uno stretto controllo da parte delle forze dell’ordine sui soggetti più a rischio. L’attenzione di polizia e carabinieri resta alta e il monitoraggio è costante. Sotto osservazione anche i transiti e i passaggi dei probabili combattenti stranieri sul territorio nazionale. Secondo le recenti e ultime stime, sarebbero 48 le persone che sono passate dall’Italia e poi entrate nelle file dei jihadisti. La crisi siro-irachena ha aperto scenari nuovi e nuovi rischi e l'impegno dell'Italia è al massimo. I contorni di questa vicenda restano tutti da chiarire. Sicuramente un ulteriore risvolto nelle indagini arriverà dai due magrebini tutt’ora a piede libero. Forse, mente e braccio di un’organizzazione ben più strutturata.

Mirko Polisano

Bandiere dell'Isis sono state trovate nel rifugio della possibile cellula alle porte di Roma

sabato 25 ottobre 2014

AFGHANISTAN, A KABUL I CARABINIERI DEL TUSCANIA SALVANO E ADOTTANO “ITALO”. E’ UN GATTO LA MASCOTTE DELL’AMBASCIATA ITALIANA

Esistono storie che hanno la forza di un’emozione. Può essere trasmessa dalle persone o dai luoghi. In questo caso dagli animali e dalla buona volontà degli uomini. Accade come in una favola di Sepulveda, dove un gatto insegna ad una gabbianella come si vola. Questa che vi raccontiamo, invece, è pura realtà che arriva da una terra difficile, ma non arida di sentimenti. Kabul è la capitale dell’Afghanistan ricordata più per le autobombe e gli attacchi terroristici. Più per l’11 settembre e per Osama Bin Laden. Più per i libri, gli aquiloni negati e i kamikaze. Eppure a Kabul c’è un cuore tutto italiano che dimostra ogni giorno quanto il bene si fa anche nelle piccole cose. Già siamo stati abituati alla vicenda di Bruno, il cane di Bala Murghab scampato a missili e razzi che aveva trovato rifugio nella base del nord, quella tra le più pericolose. I militari  lo hanno ospitato come se fosse un essere umano qualsiasi, gli hanno dato cibo e si sono presi cura di lui portandolo anche in Italia, alla fine della loro missione, pochi mesi fa. Italo, invece, è un gatto che non sapeva di chiamarsi così. Forse non aveva neppure un nome. Era un vagabondo che si aggirava per Great Massoud Road, nei pressi dell’ambasciata italiana a Kabul, quella sorvegliata dai paracadutisti del Tuscania. Tanto muscoli quanto cervello. Tra i primi della classe nello schieramento delle nostre forze armate, da essere stimati e presi in considerazione perfino da Obama e dagli Usa. Eppure un piccolo ammasso di peli è riuscito a fare breccia dentro quei quasi due metri di scorza dura, fatta di lanci e operazioni sul terreno. I carabinieri non hanno resistito a questo randagio più sporco che bianco che tra le strade di Kabul sfidava i colpi di mortaio. L’hanno tratto in salvo dai proiettili e dal tritolo, portandolo in ambasciata. Gioca fuori dalla sua cuccia tricolore costruita da loro. Lo hanno battezzato Italo, pezzo di questa Italia che ha sempre il suo modo di distinguersi. Una sorta di “made in Italy” che continua a essere una garanzia. Italo è diventato la mascotte di Kabul: i militari si preoccupano della sua salute, del suo pranzo e del latte che non deve mai mancare. È una storia semplice di uomini qualunque. La guerra è fatta, purtroppo, anche di tanto altro. Di crudeltà e paura. Oggi, abbiamo voluto raccontare una storia diversa. Bella e tutta italiana.   

Mirko Polisano

ITALO, IL GATTO DI KABUL 

ITALO, IL GATTO DI KABUL 

venerdì 24 ottobre 2014

AMERICA LATINA, PARTONO DA BERGAMO LE LINEE GUIDA PER LE POLITICHE DEI SENZA FISSA DIMORA

Fino al 25 ottobre presso il Centro Congressi “Giovanni XXIII” in viale Papa Giovanni  XXIII, 106 di Bergamo, l’IILA attraverso il Programma EUROsociAL della Commissione Europea e all’interno  del convegno FEANTSA, organizza un incontro/dibattito sul tema delle politiche per i senza dimora. A tal scopo   EUROsociAL ha portato a Bergamo una  delegazione dei rappresentanti dei governi di Brasile, Cile, Costa Rica, Ecuador, Paraguay, Uruguay e alcuni esperti del settore europei e latino‐americani. Quattro giornate in cui autorità e funzionari di 6 Paesi latinoamericani, fisseranno le linee guida per le politiche e i programmi di assistenza ai senza dimora in America Latina, avvalendosi dell’esperienza europea. L’evento si svolge a latere del Convegno annuale di FEANTSA (European Federation of National Organisations  working with the Homeless), che racchiude tutte le Ong Europee che si occupano di homeless. Fondata nel 1989, con lo scopo di prevenire e alleviare la povertà e l'esclusione sociale delle persone senza tetto, l’organizzazione non governativa europea è composta da più di 130 organizzazioni membri (tra gli  altri Spagna, Svizzera, Germania, e Ungheria), che lavorano in circa 30 Paesi europei, tra cui 25 Stati membri dell'UE. FEANTSA offre servizi alle persone senza fissa dimora con alloggio, cure mediche, occupazione       e sostegno sociale. I primi due giorni (22 e 23) prevedono incontri organizzati da EUROsociAL, in cui sono  presentate le esperienze dei singoli paesi coinvolti, organizzate visite ai progetti locali a Bergamo e Milano, e allestiti briefing sui progetti europei incentrati sugli homeless               e  incontri con partner FEANTSA. Il 24 e 25 ottobre si svolge la conferenza annuale di FEANTSA: 12 gruppi di lavoro presentano i progressi raggiunti, si confrontano e ipotizzano il programma        futuro per una politica globale verso gli homeless. L’IILA attraverso il programma EUROSociAL sta fornendo assistenza tecnica ai Governi di Uruguay, Brasile, e  Paraguay   per supportarli a delineare le loro politiche   di assistenza ai “senza tetto” attraverso la conoscenza delle migliori pratiche a livello europeo.  

sabato 18 ottobre 2014

AFGHANISTAN, ABBIAMO VINTO O ABBIAMO PERSO?


L’Afghanistan è come un vecchio amico che ritrovo ogni volta che ne ho bisogno. Anche il suo volto è meno scuro e crudele di quella prima volta. Di quel Natale così difficile e importante per me e per la mia vita. 

Il viaggio è per un reporter il luogo dove trova se stesso e la propria casa. Uno strano richiamo in questa terra dove difficoltà, dolore e miseria si incontrano. A volte penso...ma che posso fare io qui, armato solo della mia passione e della mia penna? E' tutto così in salita che ti senti impotente di fronte a tante cose. Qui dove è più facile morire che vivere. Le prospettive e le dimensioni cambiano di continuo. 

Leggenda narra di un vecchio proverbio di queste parti che racconta di Allah che dopo aver fatto il resto del mondo avanzò del materiale di scarto: lo gettò lì e nacque l’Afghanistan. Aneddoto tra la fantasia e la realtà che mi ha fatto molto riflettere sulle sorti e sul destino che ci accompagnano dalla nascita. Questo è un paese che nessuno riesce a conquistare. È la disdetta dei potenti del mondo. Ci hanno provato gli inglesi, i russi e gli americani. Più o meno tutti sono scappati. È impossibile mettere insieme un popolo che non vuole padroni, dove è la geografia a determinare la storia. Gli Usa e la Nato ancora non vogliono arrendersi e le stanno provando tutte: schemi, tattiche e operazioni sul terreno. La situazione continua a sfuggire a ogni controllo. Le rassicurazioni contano poco. 

Anche la terminologia è indisciplinata alle regole: prima erano talebani. Poi, no è arrivata la rettifica: chiamiamoli “insurgents”, che noi abbiamo approssimativamente tradotto con “ribelli”, e adesso un nuovo cambio. Ora sono i “nemici dell’Afghanistan”. Mi chiedo…ma chi sono questi nemici? La risposta è “tutti coloro che sono contro questo processo di democratizzazione del paese”. Quasi che mi ritrovo ad essere pure io un nemico dell’Afghanistan, allora. Proprio io che l’ho definito un “vecchio amico”. Non lo so. 

Credo ancora che l’unica stabilità esistente sia quella del caos. Qui si parla di democrazia, e dopo tredici anni di intervento dell’occidente, vige immutabile il Codice Pasthun, quello che prevede la vendetta come forma di giustizia. Siamo quasi ai tempi biblici di Lamech, il figlio di Caino, che la invoca fino a 70 volte sette. Qui per la città di Herat devi andare in giro protetto fino ai denti, e delle province di Farah, Bakwa, Bala Mourghab e Shindand non si sente più parlare. Proprio qui, l’Italia ha versato il suo più alto tributo di sangue in termini di vite umane. Non so quanto la politica italiana, europea e quella di Obama abbiamo imboccato la strada giusta in tutto questo. 

So però di tante belle storie e emozioni che l’Afghanistan è in grado di regalarti. Sempre. So di una persona che ha avvicinato il cappellano della piccola chiesa di Herat e gli ha detto: “Padre, io ho girato il mondo e visitato le cattedrali più grandi e imponenti. Ma alla fine è in questi quattro metri quadrati che ho trovato Dio”. 

So di soldati che si commuovono di fronte al sorriso di un bambino che riceve un po’ di cioccolata e credo davvero che un gesto del genere ti riempia la giornata e ti arricchisca l’anima. E forse non meritano nemmeno di essere il parafulmine delle scelte sbagliate di una politica incapace e distratta. 

La data di scadenza, comunque, è inesorabile ed è quella del 31 dicembre quando qui, in un modo o nell’altro, le cose dovranno cambiare. Tutti gli altri paesi hanno le idee ben chiare, l’Italia no e dà a quella data lo stesso valore di quella che si trova su un cartone del latte a lunga conservazione. Tanto c’è tempo. 

A Camp Arena c’è aria di trasloco: ogni giorno ci sono voli che trasportano materiale e mezzi dall’Afghanistan all’Italia. Si sta per tornare a casa. La partita è quasi finita: ma abbiamo vinto o abbiamo perso? 

Non lo so. So solo che questa volta, forse, l’importante non era nemmeno partecipare.


Mirko Polisano

Afghanistan (Camp Arena)- Un areo dell'Aeronautica Militare riporta in Italia equipaggiamenti e munizioni 

martedì 30 settembre 2014

AFGHANISTAN, ANCHE LA BEFFA DELLO STATO


Lettera aperta di Annarita Lo Mastro, mamma di David Tobin, il caporal maggiore caduto a Bala Murghab nel 2011. E' la beffa di una politica che deve fare i conti con le sue contraddizioni e ipocrisie. Il quotidiano Il Tempo ha raccolto le parole di Annarita che per noi, oggi, sono un insegnamento e, allo stesso, tempo una chiave per capire che in questo Paese tutto è davvero incredibilmente possibile. Anche che davanti alla salute, DOPO e NONOSTANTE tutto, ti vengano a parlare di tagli e deficit! 

Gentile direttore,

paghiamo lo scotto di una missione di "pace". Quella che nelle nostre case è paragonabile al disastro dopo una guerra. Abbiamo perso ogni entusiasmo, i nostri giorni trascorrono sempre uguali. Le notti sono interminabili, accompagnate dal rombo assordante del motore di un C130. Un’ossessione che finirà solo con la nostra morte. La perdita di un figlio è un dolore che lacera e non fa differenza per chiunque la subisca. L’unica cosa che ci differenzia è un Afghanistan che non abbiamo chiesto. Qualcuno dovrà pur ricordarsi di questo? Uno show durato 3 giorni dopo di che, via via, hanno dimenticato la tragedia che ci ha colpito per l’onore di questa Italia. 

Hanno sottovalutato che esistono dei fratelli, sangue di quel sangue. Ragazzi giovanissimi a cui hanno mozzato le ali di una gioventù che non si ripeterà. Io li definisco amputati. Siamo costretti ad elemosinare telefonate, con risposte di promesse vane o, peggio, non risposte. Ci parlano di crisi, deficit. Come si fa a parlare a noi di deficit? Ho chiesto un appuntamento al presidente Matteo Renzi. Sì signora, certo signora, invii un fax. Sono passati circa 2 mesi! Siamo stanchi di queste prese in giro. Forse sperano di prenderci per stanchezza. Ma noi non molleremo.

Non ci servono i "mi dispiace". Hanno riempito i cimiteri dei loro "mi dispiace". Vorrei che questi signori sapessero che le nostre giornate trascorrono davanti alle lapidi di figli che, non fossimo noi ad onorarli, sarebbero abbandonati.

Vogliamo risposte pratiche, vogliamo che la gioventù colpita da queste tragedie sia considerata e non abbandonata! Sono il proseguimento di quel tanto sangue versato per questa Italia, che non può far finta che non sia accaduto nulla!

Annarita Lo Mastro
Mamma del Caporal Maggiore David Tobini

giovedì 7 agosto 2014

OSTIA, METTI UNA SERATA D'AGOSTO

Ci sono racconti che solo con il tardarsi della notte riescono a conferire una sfumatura diversa alle emozioni. Niente di complicato, stasera. Un palco si trasforma nel grande schermo e ti senti un po’ come al cinema. Non servono i pop corn, basta qualche sedia e tante stelle. Al resto ci pensa Ostia e chi Ostia la ama, chi la racconta ogni giorno e chi l’ha fatta conoscere anche agli altri. Ti vedi scorrere gli anni e i decenni, come se fosse tutto un attimo. Il cavalier Muzzarelli parla di Giulietta Masina, della Mangano e di Liz Taylor che ai tavoli del suo ristorante si sono sedute per mangiare gli spaghetti alle vongole sgusciate, come piacevano a Fellini. Ostia è questa con la sua magia degli anni’60. Ti ritrovi a tu per tu con il brigadiere Gargiulo. Si quello che si è fatto fregare la moto da un ladro in “Squadra Antiscippo”e quello del “Delitto a Porta Romana”. E per chi, da bambino, non si perdeva una puntata delle avventure di Bombolo e der “Monnezza” è come trovarsi di fronte il calciatore per cui si faceva il tifo, che sia Rudi Voeller o Ruben Sosa, poco cambia. Emozioni da fine anni’80. Sembra di sentire le note di “Cara”, colonna sonora di Lucio Dalla per Borotalco di Carlo Verdone. È lo stesso sogno di Pino. Era impossibile non fermarmi a parlare con lui quando lavoravo in municipio. Ancora indossa il gilet di pelle che sfoggia in “Troppo forte”, mentre divora il flipper del bar, dove Oscar Pettinari ha una interminabile lista della spesa da pagare. Arrivano, poi, altri “Compagni di Scuola”. Elena Sofia Ricci non dimentica i suoi trascorsi al liceo classico Anco Marzio, dove ci siamo divisi lo stesso professore di storia e filosofia che anche stasera mi ha interrogato su Achille e la tartaruga, su Orazio, Nevio e Livio Andronico. Scorrono le immagini di Alberto Sordi, Federico Fellini e Roberto Benigni, sovrapposte ad un’Ostia che è cambiata e pure tanto. Ma che ancora conserva un certo modo di essere. Dove i panini e i cocomeri in spiaggia sono gli stessi dei film in bianco e nero, e dove Er Cipolla è un vero cult. Massimo è il figlio di Aldo Fabrizi. Ha la sua stessa romanità e vive di una struggente malinconia. Ricorda il papà, la  Famiglia Passaguai e le giornate al mare, al Battistini. Poi, legge un sonetto e i suoi versi sono per noi i titoli di coda di questa serata. Grazie Giulio, perché, ci hai fatto venire una gran voglia di cinema. Proprio oggi, ironia e volontà del destino, in questa giornata di agosto. Il 7, per la precisione.

Come nel film di Luciano Emmer. 




Mirko Polisano

giovedì 10 luglio 2014

MONDO, LA GUERRA, INSOMMA ERA TUTTO QUELLO CHE NON SI CAPIVA

<<La guerra, insomma, era tutto quello che non si capiva>>. L.F. Celine, "Viaggio al Termine della Notte". 

E' stato presentato al Pontile "Senza Pace", il libro di Andrea Angeli, peacekeeper attualmente impegnato in Afghanistan. Le storie di Andrea Angeli fanno parte della sua storia: è stato inviato con i caschi blu dell'Onu in Cambogia, Namibia, Santiago del Cile, Baghdad e New York. E' stato portavoce dell'Ocse in Albania, in Iraq a Nassirya e in Afghanistan. Nel suo libro ci sono uomini e donne impegnati in missione di pace, visti da vicino come mai prima d'ora. Con i loro dubbi, ansie, speranze, frustrazioni, tra successi e sconfitte. Vite sul filo del rasoio e situazioni estreme. Episodi inediti di spedizioni ai confini del mondo. Storie dal tormentato Afghanistan, dove ci siamo dentro fino al collo, che emergono dal buio tunnel dove la comunità internazionale si è infilata e da cui stenta ad uscirne fuori. Eroi autentici e eroi per caso. Generali e diplomatici, cooperanti e reporter d'assalto, ma anche soldati semplici e gente comune. Tutti si incontrano in queste pagine. E, per una sera si sono incontrati al Pontile. E' stata una bella serata...quasi magica. Ci abbiamo provato: da Ostia, alla striscia di Gaza, alla Siria, all'Afghanistan, nel segno delle emozioni. Le "Storie" di chi rappresenta la "meglio gioventù" e di chi se ne è andato nel nome di questo smemorato Paese. Le nostre parole sono state più forti della zumba e più decise dei versi delle marionette. Poi, ci pensi e ti accorgi che tutto questo altro non è che...un'amara retorica immagine di questa nostra Italia. <<Nel silenzio ogni dubbio sarà sciolto, se il Navigatore approda alla mia riva>>. 

Il poeta è indiano ed è Rabindranath Tagore. I Navigatori sono due e sono Massimiliano e Salvatore. Il pensiero stanotte è anche per loro.

Mirko Polisano


Con Andrea Angeli, presentazione del libro "Senza Pace" al Pontile di Ostia (Foto di Simone Mancini)

Presentazione del libro "Senza Pace" di Andrea Angeli. Da sinistra: l'autore, Giulia Aubry (Il Messaggero e Riserva Selezionata in Libano), Lao Petrilli (Rds), Mirko Polisano e Sandro Petrone (Tg2). (Foto di Simone Mancini)

martedì 1 luglio 2014

LE MILLE E UNA NOTTE A ROMA. E’ IL SOGNO DI CHI SOGNA

Esistono storie che per essere raccontate hanno bisogno di altre storie. E di altri personaggi. Il sogno di Aladino che è andato in scena una sera di inizio estate al teatro Ghione di Roma non è soltanto la favola de Le Mille e una Notte, il cui incanto da secoli continua ad avvincere lettori di ogni latitudine e età. Ma è anche la favola di altri, di quei ragazzi nati e cresciuti tra Casalotti e la Pineta Sacchetti. Zone dove si respira l’aria della periferia, quella pura e vera, quella che non inganna. Quella periferia dove si conoscono tutti, quella che vive nella Roma di Rossellini e quella dei teatri di rione di Petrolini. Quella dove l’amicizia è per sempre e non solo perché questa frase la puoi trovare scritta su qualche muro di questo magico quartiere. L’amicizia, proprio come quella sognata da Cicerone - eccolo il sogno che ritorna-  quella virtù al di fuori della quale non può esistere nulla di più prezioso. Questa è la storia, allora, di 20 ragazzi che hanno superato la timidezza e hanno deciso di esserci. Per sé stessi, ma anche per i tanti che hanno deciso di assistere al loro spettacolo. Salire su un palco per recitare e non solo. Per cantare e ballare, ma anche per gridare “ce l’abbiamo fatta!”. Un progetto che, come tutti i successi, è nato un po’ per caso e un po’ per gioco, dove è più difficile tirarsi indietro che andare avanti. Potrebbe iniziare così, come una delle favole del Gran Visir, la storia della Compagnia della Nanas. Alessia e Roberto sono il “deus ex machina”, per usare un termine caro alla tradizione teatrale greca, di tutto questo. Hanno fatto del loro impegno, il loro sforzo quotidiano e hanno fatto della loro passione, la propria missione. L’amore comune, oltre a quello della vita, è il teatro. Erano gli educatori di questo gruppo di ragazzi, che vedeva nella parrocchia il luogo di incontro: “cercavamo qualcosa che potesse continuarli ad unire – mi racconta Alessia, 20 anni di danza classica nel suo curriculum- oltre all’oratorio, anche nella vita. Io e Roberto crediamo fermamente nell’amicizia e avevamo paura che si potessero perdere. Non avremmo mai pensato che quest’idea semplice potesse trasformarsi in qualcosa di più”. Come in tutte le fiabe belle, non c’è solo un lieto fine ma anche una morale. In questa, ciò che resta è la capacità di andare oltre la fantasia, di portare i sogni nella realtà e di mandare quel messaggio a chi, forse, non smette di remare contro. Perché c’è anche questo in tutte le favole: l’antagonista che a volte veste i panni del lupo cattivo e altre volte quelli della strega malvagia. La risposta più incisiva è rivolta a proprio a questi anti-eroi, perché pensare per questi ragazzi qualcosa di costruttivo per sé e per il loro futuro significa toglierli alla strada e proporre un’alternativa. E la vita è fatta di alternative, Shakespeare ce lo insegna. Nel foyer del teatro Ghione è tutto pronto e manca poco all’inizio dello spettacolo. Sulle pareti, le locandine di Aladin e del suo genio sono accanto a quelle dell’ultimo concerto di Amedeo Minghi: è la bellezza del teatro che avvicina i sogni e annulla le differenze, anche solo per una sera. Il sipario si apre ed entrano in scena, di volta in volta, nuovi professionisti. Stavolta è il turno di Fabrizio, Alessandro, Eleonora, Davide, Martina e tutti gli altri che improvvisano canti e balli. Aladin, Al-Budùr, il genio e le principesse hanno i volti dei ragazzi di oggi. Di ragazzi straordinari e qualsiasi con fisici fatti di tatuaggi e orecchini e ti raccontano di Baghdad e dell’antica Babilonia. A pochi giorni dal loro esame di maturità, a pochi giorni del concerto del Liga, dove non si può cantare per paura che le corde vocali giochino un brutto scherzo il giorno della prima, a pochi giorni da quel “merda, merda, merda” che più che uno scongiuro è un album che raccoglie tutte le emozioni del debutto. Questa favola ti insegna ad esserci per gli altri, ad ascoltarli, a riprenderli quando sbagliano e ti insegna a non girarti mai dall’altra parte. Speriamo che anche questa fiaba orientale si chiuda proprio come accade ne “Le Mille e una Notte”. 

A tutti questi protagonisti, allora, che arrivino… “mille lodi e mille benedizioni”...    

Mirko Polisano


La Compagnia della Nanas in scena al Teatro Ghione a Roma


martedì 24 giugno 2014

BRASILE 2014, L'ITALIA PER CUI TIFIAMO

Ci sono cuori che battono ovunque. Al di là dei confini e oltre le frontiere. È il cuore di un’altra Italia che, con lo stesso entusiasmo e un pizzico di nostalgia in più, fa il tifo per gli azzurri pronti a scendere in campo, tra poche ore, contro l’Uruguay.  È un’attesa fatta di speranze e emozioni quella dei nostri connazionali all’estero. Giovani, laureati e con la voglia di realizzarsi in un lavoro che nel Belpaese, da Roma a Milano, continua a non esserci. Sono psicologi, medici, giornalisti, archeologi il volto di quest’Italia che vive oltre il Passo del Brennero, e che è costretta a trascinarsi l’etichetta di spaghetti, mandolino e di pizza margherita. Superati anche gli stereotipi di “Little Italy”, grazie al sogno di un’Europa unita, sono comunque tante le presenze italiane in Inghilterra, Irlanda, Francia e Germania. Il sentirsi italiano, da queste parti, è un valore aggiunto e una marcia in più. Nel nome del pallone e nel segno di Balotelli, l’Italia del football si ritrova a casa o nei pub di Londra e Dublino. Ma anche per le strade di Berlino e nei vicoli di Parigi, sotto un unico tricolore che, almeno per questa volta, abbatte ogni barriera.

Carmen Cretoso giornalista "europea" in Francia
QUI PARIGI.  Carmen Cretoso è partita da Pompei alla volta della Francia. Ha 30 anni e tifa Napoli. “Al sud il lavoro non c’è – racconta – allora dobbiamo inventarcelo. Anche i sogni costano e così ho deciso di lasciare la mia città, la famiglia e gli amici per partecipare ad un progetto con il parlamento europeo”. Ha seguito le recenti elezioni amministrative di Parigi e ha una passione per Insigne e Immobile, ma quando scendono in campo gli azzurri, il tifo è per tutti. “Mi riunisco a casa – spiega- con altri amici e il rito scaramantico è quello di preparare le lasagne. I coinquilini stranieri si aggiungono lo stesso anche se non tifano Italia e alla fine ci ritroviamo tutti a tavola”. Alcuni bambini con cui lavora nelle scuole, le hanno disegnato sul volto la bandiera dell’Italia e poi anche quella della Francia: “così se vince l’Italia o vince la Francia – le hanno detto- nessuno ci rimane male”. 

Tifosi italiani a Berlino 
QUI BERLINO. Giuseppe da diverso tempo vive a Berlino. È un appassionato di calcio e per le strade della capitale tedesca ha riunito i tanti italiani per seguire insieme le partite della nazionale. Qui, è dove l’Italia ha vinto il suo ultimo mondiale, ma è anche il paese che ha mandato in onda un recente spot pubblicitario che ironizza sulla figura di noi italiani. “Berlino è una delle città in Europa con la comunità italiana più vasta- fa sapere Giuseppe-  quando arrivano i mondiali, da buoni italiani, partiamo in sordina. E come potrebbe essere altrimenti, con le maree di bandiere, sciarpe, canti a colori giallo rosso e nero. I tedeschi sono dei veri coreografi quando si tratta di eventi come questo. Posso davvero fare scuola. Ogni locale, ogni angolo della città, ogni auto, palazzo e bar è tinteggiato coi colori della nazionale teutonica. Giovani, anziani, donne, bambini, quando gioca la Germania sono tutti uniti a tifare insieme. Noi italiani abbiamo i nostri santuari, ci riuniamo, ci facciamo sentire. Due anni fa fu così e, arrivati in semifinale con i tedeschi, poi eliminati come al solito, siamo esplosi, a nostro rischio e pericolo. Ma poi i tedeschi, si sa, sono sportivi, ci bevono su e dimenticano presto”. 

Italia-Inghilterra a Londra
QUI LONDRA. Livia è arrivata in Inghilterra per imparare la lingua e per cercare lavoro, come tanti italiani da queste parti. “La partita d’esordio – ci dice- ha vissuto un’attesa con il pathos alle stelle per noi italiani a Londra. Gli inglesi sono molto nazionalisti e soprattutto non ci vedono di buon occhio. Per le strade della città di italiani non se ne vedono. Qui, il punto di ritrovo resta il pub dove, in compagnia di buona birra, siamo pronti a seguire le gesta di Balotelli e compagni". Anche a Dublino, il pub diventa Casa Italia: “Da queste parti – racconta Antonio, da due anni in Irlanda- il tifo è tutto per noi. Gli irlandesi sono dalla nostra parte, specie da quando abbiamo sconfitto l’Inghilterra". Belfast resta ancora un nervo scoperto. 



L'Italia in gol. Visto dal Kosovo
QUI AFGHANISTAN. Poi, c’è un’altra Italia. Quella del senso del dovere, quella che non conosce interruzione né domenicale, né festiva. Quella che scende in campo ogni giorno in posti difficili come l’Afghanistan, il Libano o il Kosovo. Nella base di Camp Arena, l’atmosfera si fa più coinvolgente e i punti ristoro hanno i maxi schermi sintonizzati sugli stadi del Brasile. Così come a Pristina o a Shama nel Libano del sud. “Quando partono le note dell’inno nazionale- spiegano dal contingente italiano- la sensazione è fatta di brividi e commozione. L’inno di Mameli noi lo cantiamo ogni giorno, quando iniziamo la giornata ed è l’icona dell’unione del popolo italiano e della vicinanza, ovunque ci si trovi”. Dopo la partita contro l’Inghilterra, le strade di Tyro sono state invase da caroselli di libanesi che sventolavano il tricolore. “E’ stata la nostra vittoria più bella”, fanno sapere i militari italiani dalla base Onu.    



Mirko Polisano

giovedì 1 maggio 2014

ASANTE SANA, AFRICA! IL PAESE CHE TI TOGLIE IL RESPIRO...


Quando arrivi ad Addis Abeba ti manca il fiato. Il sole è forte, anche se è sorto da poche ore. L’altitudine ti dà questa sensazione di asfissia, anche se con la mente pensi possa essere il paesaggio, la città, l’Africa. L’Etiopia è ancora un paese che parla italiano, dove il traffico è peggio di quello di Roma e dove il caffè è davvero buono. Per le strade della capitale, ancora puoi incontrare i figli della guerra e della povertà. Come quei bambini che si nascondono allo stadio perché essere orfani e soli qui è un reato. La legge è rigida e severa. Le donne hanno un fascino che ti travolge e le pene sono inasprite anche per gli italiani amanti del turismo sessuale che ora rischiano il carcere se scappano in caso di gravidanza. Viaggiamo su mezzi strani e improbabili: un bus affollato e carico di umanità, un ape attrezzato a taxi. Qui li chiamano “banjangi” e con pochi euro ti portano ovunque: dai sentieri non asfaltati alle sterminate distese di sabbia rossa. Anche l’aereo non è di quelli sicuri. Sembra il charter dei film di Pozzetto e Villaggio, manca solo il lavavetri che compare mentre sei in volo. D’altronde, la stagione delle piogge non è ancora conclusa e i temporali sono intensi ma brevi. Ci spostiamo a Dar es Salaam, capitale della Tanzania. Anche qui il traffico ti accoglie e come in una veloce sequenza ti appaiono al finestrino venditori di tutto: banane, arance, patate, palloni, dvd e perfino coltelli e bastoni. Di notte, le strade sono presidiate da militari e guardie armate: la sicurezza è un serio problema, soprattutto se sei bianco. Arriviamo nel periodo della Pasqua e della festa nazionale, che proprio quest’anno fa celebrare alla Tanzania i suoi primi cinquant’anni di unità. Il nazionalismo è molto sentito: in tv, tutti guardano la cerimonia ufficiale e il silenzio nei locali ti colpisce. Così come nelle scuole, dove i bambini prima di entrare in classe cantano l’inno e omaggiano la bandiera. La religione è l’altro perno di questa società. Islamici e cattolici vivono nel rispetto reciproco. Nel giorno di Pasqua, viaggiamo per le città del sud, al confine con il Mozambico, e siamo trascinati in balli popolari e coinvolgenti per la festa più importante del mondo cristiano. In alcuni hotel, invece, sono rigide le pratiche musulmane, soprattutto quelle del divieto di consumare alcool e di dormire insieme per le coppie non sposate. La differenza la noti solo nei nomi: i biblici Moses, Ellen e Natalia sono di estrazione cattolica, Mohamed e Abduramein, di facile intuizione. Nei villaggi, il football resta l’amore della vita. Non importa di quale squadra, l’importante è indossare una maglia da calcio. Messi e Torres sono i beniamini di sempre e Arsenal, Chelsea e Barcellona vivono il loro sogno della Champions League. E le partite di pallone si giocano con una palla fatta di buste di plastica e con uno scarpino alternato nella migliore delle ipotesi ad una ciabatta oppure se proprio va male, ad un piede scalzo.  Hassan è un insegnante di storia. Vorrebbe lavorare all’università il prossimo anno, ma per ora si accontenta delle elementari. “Ho scelto queste classi – mi racconta – perché i più piccoli non parlano l’inglese e io posso insegnarglielo. La bellezza è nelle fondamenta e questi bambini sono le basi di questa società”. Qui andare a scuola, è ancora un privilegio. Può permetterselo solo chi ha una divisa. Di notte, una sera arriva Addara. È stato uno dei primi ad avvicinarsi a Carla per chiedere di studiare. Lei gli regala la divisa per frequentare la primary school. Ha preso la licenza: oggi è un insegnante. Già Carla. Lei, romana di Centocelle, che in questa terra ritrova ogni volta se stessa. Con l’associazione Silenas, qui porta alimenti e medicine. “La cosa bella – mi racconta un giorno – è che quando porto un po’ di riso, fagioli o ugari loro sanno che devono dividere tutto”. Il suo impegno oggi è per costruire una casa famiglia per 40 bambini abbandonati e un punto di primo soccorso perché qui le donne ancora partoriscono per strada e la malaria è sempre un’emergenza. Questa resta una terra contesa. Il pericoloso Mozambico lascia alla porta volontari e reporter: è troppo pericoloso per entrare. Il paesaggio è indimenticabile e i baobab segnano i punti di congiunzione di questo continente, come in una settimana enigmistica dove devi collegare l’uno con i successivi per tirare fuori la vera immagine. Il Terzo Mondo è questo e non è, poi, così lontano. Come non sono lontane e sconosciute le scene dei bambini con le mosche sul naso o la pancia gonfia. Anche l’Aids resta un tabù e chi contrae la malattia è costretto ad indossare un segno giallo che dice: “io ho l’aiz”. Si perché la malattia passa ancora per il contagio da contatto, e questo stereotipo è difficile da combattere. Intanto, russi, cinesi e arabi hanno trasportato qui i loro interessi: il Burundi, per esempio, a due passi da qui, sulle riviste specializzate è già sponsorizzato come sito per importanti investitori stranieri. Il ponte che collega la Tanzania al Mozambico è ormai ultimato e la storia del gas è sempre una plausibile giustificazione a tutte le guerre. Io, ritorno in Italia. Altro paese difficile e lascio qui il mio “saluto bianco”, come diceva Sèdar Senghor, poeta senegalese ideatore della Negritudine. Quel saluto che va “al di sopra dei reticolati”.


Dell’odio e dell’idiozia. 



Mirko Polisano

Una carezza dall'Africa

domenica 6 aprile 2014

L'AQUILA, IL RICORDO E' UN MODO DI INCONTRARSI

Kierkegaard sosteneva che ci vuole più coraggio per dimenticare che per ricordare. Ma per questa storia tutta italiana ci vuole coraggio anche per ricordare. Perché se sono passati cinque anni e troppo poco è stato fatto finora, allora subentra un altro sentimento: la vergogna. Anche cinque anni fa era una notte di domenica e a quest’ora L’Aquila era ricordata più per ospitare le spoglie di Celestino V che per le macerie che di lì a poco sarebbero arrivate. Come la scena finale di un film in cui un’esplosione crea il nulla intorno. Nietzsche chiamava cattivo chi aveva lo scopo di incutere la vergogna. Se così fosse, cattiva è la politica: quella delle mazzette e della corruzione, quella che non ha saputo gestire l’emergenza, quella che ha creato ghetti e alienato persone; quella che richiama i grandi nomi, siano questi architetti per un auditorium o capi di stato pronti a farsi fotografare tra le macerie con il caschetto giallo in testa. La madre dei “presidenti operai” è sempre incinta. È questa la vergogna a L’Aquila, cinque anni dopo. E’ in queste occasioni che sono convinto che l’Italia assomiglia ad un tandem: per una parte del paese che non pedala, ce n’è un’altra che va più forte. È quella degli aquilani che nel giro di pochi mesi hanno ripreso in mano la propria vita: persone come Maurizio che sotto il forte spagnolo ha riaperto il suo nuovo chalet e lo ha chiamato la “Fenice” proprio perché come la leggenda dell’uccello mitologico che rinasce dalle proprie ceneri; oppure come Leò il primo bar aperto a L’Aquila dopo il sisma; o ancora come le sorelle Nurzia che non hanno mai smesso di lavorare il torrone. Marzia che sul muro del suo locale ha una scritta che ti colpisce: “non so che succederà…ma noi ce la faremo”. La dignità di chi vive ancora nei moduli abitativi, nelle finte case già arredate e volute dal governo Berlusconi; di chi chiede verità per la Casa dello Studente e di chi porta ancora quella sana rabbia nel vedere palazzi, chiese e monumenti imprigionati dai ponteggi. È questo il coraggio a L’Aquila, cinque anni dopo. Ogni volta che torno a L’Aquila è un tuffo nel passato e, allo stesso tempo, è una nuova scoperta. Ricordo Coppito e Onna, nella mia prima missione da “embedded” e la tensione che ancora si respirava pochi giorni dopo la scossa. Ricordo l’entusiasmo durante il G8,  le straordinarie misure di sicurezza e quei cartelli “Yes we camp” che facevano il verso allo slogan di Obama…per poi apprendere che gli unici a non mantenere le promesse sono stati proprio gli Stati Uniti d’America. Ricordo il rumore dei passi dei soldati nella zona rossa e quelle frasi su un muro che è diventato una bacheca da tutto il mondo: “L’Aquila, no disaster for ever. God bless you!”. Il dio è quello di tutti. L’Aquila è la città di tutti.

Di tutti gli italiani che fanno dimenticare la vergogna e ricordare il coraggio. 


Onna, Aprile 2009

Coppito, Aprile 2009
A L'Aquila, Aprile 2009




mercoledì 19 marzo 2014

AFGHANISTAN, LE SPERANZE AFFIDATE ALLE PREGHIERE NELLA CAPPELLA DI HERAT

Sogni, speranze e preghiere per il presente e per il futuro. La piccola cappella di Camp Arena in Afghanistan è una mano tesa verso il cielo, dove i soldati italiani lasciano ricordi, pensieri e anche preoccupazioni. Nel dicembre scorso, il parroco Don Marco ha sistemato all’ingresso della piccola chiesetta un libro che raccoglie le sensazioni e le emozioni che appartengono agli uomini prima che ai militari. Non c’è differenza di ordine e grado, davanti al Signore tutti sono uguali. C’è Massimo che scrive al figlio Silvio per il suo primo compleanno, oppure Ale che ogni giorno lascia una dedica al suo papà che non c’è più. Qualcuno
tutte le mattine inizia con un messaggio di fratellanza: “Buongiorno Famiglia!” e non manca chi alla famiglia in Italia ci pensa sempre. Stefano, invece, prega per tutti i bambini del mondo che “non c’entrano nulla con queste atrocità”, mentre qualcun altro si augura che non attacchino la Siria e che si possa tornare tutti a casa “sani e salvi”. È la casa, il leit motiv ricorrente. Qui ad Herat un po’ tutti sognano di riabbracciare i propri figli, le proprie mogli e i propri genitori. Cosimo è contento: “dopo 180 giorni, lascio questo posto!”; Roberto ringrazia: “per avermi sorretto in questi lunghi mesi”. Qualcuno esclama semplicemente: “E’ finita!” e in queste due parole c’è tutta la gioia di chi sa di avercela fatta. Come un altro soldato: “domani finalmente si torna!”, oppure chi ringrazia il Signore per averlo “sostenuto in questi lunghi mesi”. Anche un caporale esprime la sua felicità: “è l’ultima sera in Afghanistan. Grazie per essere stato al mio fianco”. Lino chiede di “renderci uomini” e qualcun altro gli fa l’eco: “che possano esistere degli uomini meno finti”. C’è chi prega per la propria isola e il pensiero corre alla Sardegna e alle genti colpite dall’alluvione dello scorso novembre. Don Marco risponde anche lui ai pensieri dei soldati e porta il suo conforto. Le pagine vanno via, una dietro l’altra e parlano di pace, fiducia e desideri per il nuovo anno. Ma in questa terra in cui il futuro è ancora visto come punto interrogativo non si può che essere proiettati anche nel presente. Qui dove, come ha scritto l’ultimo militare in fondo al diario, “un altro giorno” è davvero...“un altro regalo”.



lunedì 10 febbraio 2014

GIORNO DEL RICORDO, L’ESODO E LA DIGNITA’.



Quella di Claudio è la storia di tanti come lui. Oltre 300 mila italiani hanno vissuto l’incubo dell’esodo e la tragedia, ancora più grave, delle foibe. Claudio Smareglia ha 66 anni ed è nato a Pola. Il papà Giulio era un insegnante di lettere e filosofia a liceo ed era anche il proprietario dell’unica libreria della città. Il suo racconto è di quelli che tante volte, facendo questo lavoro capita di incontrare, purtroppo. Quando è l’umanità ad oltrepassare il confine dei sentimenti, dove il rancore diventa intolleranza e l’intolleranza diventa odio. Sulla cartina, il confine è quello italiano. Quella sottile e tremula linea che segna il passo dalla Jugoslavia di Tito. Claudio, all’epoca, era un bambino. Ma i suoi ricordi sono limpidi come quelli di sua mamma che di anni ne ha 94 e la sua memoria è testimonianza delle generazioni presenti. “La mia famiglia è istriana dal 1649 – racconta con voce ferma e decisa Claudio- e dopo 500 anni aveva tutti i diritti di rimanere lì, invece noi siamo stati completamente estirpati. Papà, essendo italiano, era considerata persone sgradita: è stato subito incarcerato come nemico del popolo slavo. Non ha mai fatto mistero della sua italianità – prosegue Claudio – e del suo voler rimanere italiano. Come ha scelto la nazionalità italiana lo hanno tirato fuori dal carcere, a me e mia mamma ci hanno preso come eravamo vestiti, senza prendere nulla, e ci hanno portato sulla Rabuiese, dalle parti di Trieste”. Da qui inizia l’esodo della famiglia Smareglia. “Siamo andati a finire a Grado – mi spiega Claudio, oggi pilota dell’Alitalia in pensione – dal fratello di mio padre. Il momento era bruttissimo con la famiglia che si era divisa. Papà era andato ad insegnare a Mestre e noi siamo andati al Silos di Trieste, un antico magazzino dell’Austria, vicino alla stazione e vicino al porto utilizzato per smistare le merci e lì abitavamo io, mia madre, mio zio e mia nonna in un box di legno di tre metri per quattro, senza nessun conforto e con i servizi all’aperto”. È il cammino di sofferenza vissuto da un’intera comunità con grande dignità e consapevolezza. Un cammino, purtroppo, vittima della storia contemporanea a lungo ostaggio di interpretazioni ideologiche e di convenienze politiche. Era Sofocle che diceva che l’uomo civile si distingue dal barbaro perché sa opporsi alla dismisura. Ecco, per gli artefici di questa storia non ci sono gli insegnamenti di Sofocle. Ci sono solo barbari.      

Mirko Polisano

Con Claudio Smareglia, esule istriano

lunedì 27 gennaio 2014

SHOAH, LA MEMORIA E' LA NOSTRA SALVEZZA

La memoria non può essere solo quella di oggi. Deve essere quella di sempre e quella di tutti. Non dico di fossilizzarsi, ma di riflettere quando si può. Ho sempre provato un certo fastidio per i luoghi comuni e per gli eventi spot. Come la beneficenza a Natale o come la festa della donna. E non possiamo permettere che giornate come quella di oggi rischino di avere lo stesso percorso. Perché così diventa una memoria fine a se stessa fatta di Schinderl’s List e di Anna Frank: indispensabili capolavori, ma che non possono essere esclusiva metafora del male assoluto. Essere ad Auschwitz e Birkenau proprio il 27 gennaio è uno dei regali che ho ricevuto da questo lavoro. È lì che ho incontrato Petro Mischtschuk, sopravvissuto ucraino scampato alla follia del campo di concentramento. Mi lasciò un biglietto scritto in cirillico, che ancora conservo. Voleva che continuassimo a fotografare, a riprendere…a raccontare. Per molti, oggi, la paura più grande sembra essere proprio questa: che la memoria si tronchi. In tanti chiedono di cosa sarà quando andranno via anche gli ultimi testimoni.  Se esiste questa paura è perché, forse, già sappiamo la risposta. L’avremmo dovuta già imparare da Nabucodonosor con le sue deportazioni degli ebrei nelle terre babilonesi, l’avremmo dovuta imparare già da Alessandro Magno che vietò lo Shabbat, i sacrifici al tempio e proibì la diffusione dei libri sacri. L’avremmo dovuta già imparare dall’imperatore Claudio che cacciò gli ebrei da Roma e l’avremmo dovuta già imparare anche da Tito che bruciò il tempio a Gerusalemme e per segnare il trionfo fece innalzare quell’arco che porta il suo nome e che ancora è lì, accanto al Colosseo. Se è così, non vorrei che la storia sia maestra di vita. Perché forse Auschwitz c’è sempre stata e rivive ogni volta che è la volta di un genocidio, di una discriminazione, di un pregiudizio. Auschwitz rivive a Srebenica nei Balcani. Auschwitz rivive a Meje in Kosovo. Auschwitz rivive nelle teste di maiale davanti alla Sinagoga. Auschwitz rivive ogni volta che sentiamo parlare di “tutti questi zingari”, “di tutti questi negri” e “di tutti questi ebrei”. E’ quella la più bassa percezione del razzismo che incontriamo al bar, in treno, e anche in certi politici. E purtroppo non ci indigna come dovrebbe. Questa è anche la storia di una classe di bambini di terza elementare e di una maestra che per rispetto nei confronti di un nostro compagno ebreo ci fece provare la merenda con  il pane azzimo. Oggi poteva finire su qualche giornale, e invece ci ha formato come uomini migliori. Ed è stata, per noi, la più importante lezione di storia.   

Mirko Polisano
Brandello di stoffa nella bandiera israeliana che sventolava a Gerusalemme

martedì 7 gennaio 2014

AFGHANISTAN, ADDIO!

Il freddo ti gela le dita e il vento ti taglia la faccia. Gli occhi lacrimano e, talvolta, non solo per la polvere che si solleva. L'Afghanistan oggi appare così. E' iniziata la fase della dismissione e l'aria che si respira ha tutto il sapore di un ritorno malinconico e allo stesso tempo di un breve addio. Il count down segna meno undici al ritiro occidentale da questa terra. Drastico potrebbe essere il termine che sarà accompagnato alla parola bilancio, quando si inizieranno a tirare le somme. Ma non ora e di sicuro non qui. Ne è valsa la pena? La domanda è di quelle che ti fa correre i brividi sul corpo. Più di quelli dovuti ai nove gradi che scendono sotto lo zero la notte su Herat. Non lo so. So che i vecchi spettri di Bala Mourghab, Bala Baluk, Farah e Bakqua ora sono lontane preoccupazioni. Tristi per molti, purtroppo. So che in Gulistan non ci siamo più e che l'unica base avanzata ancora operativa è quella di Shindand, quella stessa contro cui sono stati lanciati i razzi nel giorno del nostro arrivo. E tra poche settimane chiuderà anch'essa. So che a Kabul nel 2008 si poteva girare a bordo di una Toyota bianca anche senza la scorta e cinque anni dopo se non hai truppe al seguito è meglio non andare. So che a Herat ci sono ancora i "warning", gli avvisi del pericolo. L'ultimo oggi e anche grave. So anche che l'Afghanistan è molto altro ed è soprattutto storia, cultura e tradizioni. Stamattina ho incontrato giovani che parlano l'inglese e studiano all'università e ti salutano sempre con un "my friend", scimmiottando un po' gli americani che qui restano i nemici numero uno. So anche di un'umanità tutta italiana che pensa all'infanzia, alla scuola e a costruire i pozzi d'acqua. I nostri soldati stanno ristrutturando perfino una moschea per permettere ai militari e ai poliziotti afghani di avere un luogo dove poter pregare durante il giorno. Questo è l'Afghanistan del 2013, a pochi giorni dall'inizio di un anno che dovrebbe segnare la svolta per l'intero Paese: il 2014, quando le truppe Nato lasceranno le città e la Ring Road. Forse anche noi ce ne andremo come i russi o come gli americani: dal giorno alla notte e ci lasceremo alle spalle le dolci montagne e le vallate desertiche. Parlando di quello che abbiamo fatto e di quello che ancora c'è da fare, un colonnello mi dice della democrazia, nel nome e per conto della quale questa guerra è iniziata. "Il problema non è esportare il nostro modello togliendo il burqua alle donne - mi racconta - la vera democrazia è chiedere alle donne se vogliono indossare il burqa oppure no". Questa che stiamo vivendo è la fase denominata "Retrogade", dove l'inglese ha sostituito la più semplice "Ritirata". Comunque un momento delicato per l'Afghanistan e per gli italiani. In questo periodo, non si è abbassato il rischio degli ordigni improvvisati, anzi: per gli uomini del Genio c'è più lavoro nel disinnescare mine rispetto agli ultimi tempi. La corrente è appena saltata. Il generatore di continuità ci ha salvato dal buio, la guerra fa meno paura quando c'è la luce. Anche l'acqua la mattina manca e le stelle sono meno splendenti: i fari rossi piantati lungo il selciato della base e le lampadine fuori qualche alloggio rendono la visione di un cielo poco limpido. L'aeroporto civile appena costruito dà a Herat un'immagine di città sempre più in movimento, lontana ancora da Beirut nonostante le esplosioni e la minaccia di attentati cerchino di farle sembrare così uguali. Il ritratto di questo paese assomiglia ad un quadro di Klimt, dove tante parti devono restare unite per capirle. Camp Arena rimarrà ancora per poco l'unico avamposto italiano tra polvere e sabbia. Arriverà una soffiata di vento. E così anche l'incubo Afghanistan rischia di diventare solo ricordo. Ma non per tutti. E allora ne è valsa la pena? L'espressione del volto resta impassibile, ferma come immobile. E stavolta non è colpa del freddo.   

Mirko Polisano