mercoledì 23 febbraio 2011

DA «GOMORRA» AL LIBANO CON L'ESERCITO: IO, CASALESE IN MISSIONE A SHAMA

La storia del caporale Amalia Vassallo laureata in lingue e responsabile dei circuiti informatici delle forze armate.

di Stefania Melucci

Un pezzetto di Casal di Principe anche nel sud del Libano. Non lontano dal confine con Israele, nella base “Millevoi” di Shama, lavora il caporale Amalia Vassallo all’interno della missione Leonte. Ventisette anni e grinta da vendere, fa parte del 232 Reggimento Trasmissioni di Avellino: «Ho deciso di fare domanda nell’esercito tre anni fa – ha spiegato il caporale Vassallo con un sorriso – ed è una scelta che rifarei ancora una volta. Questa è la mia prima missione lontano da casa». In Libano è arrivata due mesi fa per occuparsi del funzionamento degli apparati informatici all’interno della base, tra i compiti svolti c’è anche il mantenimento delle telecomunicazioni tra Libano e madrepatria. Una giornata divisa tra computer e telefoni per risolvere i problemi tecnici di software e hardware. Una vita scandita dai ritmi precisi, con sveglie che squillano poco dopo le sei, e qualche distrazione: un po’ di musica da ascoltare con le cuffie per non disturbare le colleghe in camerata e lunghe chiacchierate con gli amici tramite chat. Una passione per il giornalismo e le lingue straniere, il caporale Vassallo dopo aver conseguito la laurea in Scienze internazionali e diplomatiche all’Orientale di Napoli con una tesi sull’allargamento ad est dell’Unione Europea, spera di fare strada nell’esercito. «Mi piacerebbe diventare ufficiale – ha concluso il caporale – così, dopo il conseguimento della laurea, potrei dire di aver messo a frutto i miei studi. Incrocio le dita».



Stefania Melucci

LIBANO: AL CONFINE CON ISRAELE. SULLA BLU-LINE TRA MINE E CORAGGIO.

Le distese di bananeti e di uliveti fanno dimenticare per un attimo la guerra lasciate alle spalle. La fertile terra libanese, nel suo ventre, custodisce ancora gli orrori del passato. I 34 giorni dell’ultimo conflitto nel 2006 hanno lasciato sul terreno centinaia di migliaia di ordigni inesplosi. Un arsenale disseminato soprattutto nella parte meridionale del paese dove l’agricoltura è l’unico mezzo di sostentamento per molte famiglie. Secondo uno studio sugli effetti della guerra in Libano, effettuato dalla organizzazione Landmine Action, le perdite del settore agricolo, a causa delle bombe a grappolo, ammontano tra i 22 milioni e i 26 milioni di dollari perché con munizioni e ordigni disseminati non è possibile coltivare un campo. Il rischio di saltare in aria è troppo elevato, come già è accaduto 272 volte, facendo registrare 28 vittime, anche se negli ultimi due anni il numero di incidenti è stato ridimensionato, grazie al lavoro di bonifica e alla prevenzione.
Secondo le Nazioni Unite, sono sessantacinque i chilometri quadrati di superficie che devono essere ancora bonificati. Mine antiuomo e anticarro, ordigni inesplosi e frammenti di “cluster” sono sul terreno. Attori libanesi e internazionali si dividono il lavoro per ripulire le aree identificate: quelle colpite dalle “cluster bombs” spettano alle organizzazioni non governative, ai caschi blu della missione Unifil sono affidate le zone con mine antiuomo e anticarro. I maggiori interventi si concentrano a sud, lungo la Blue Line, pseudo-confine tra Libano e Israele, dove operano gli sminatori del 21esimo Reggimento Genio Guastatori di Caserta. Protetti da tute tanto pesanti da rallentare qualsiasi tipo di movimento, si alternano su un fazzoletto di terra nella zona di El Boustan alla ricerca di mine antiuomo e anticarro. Qualche ordigno risalirebbe alla fine degli anni ’70. «Le mappe del campo minato sono state fornite dagli israeliani alle Nazione Unite – spiega il capitano Emanuele Amicarella, impegnato nelle operazioni di sminamento all’interno della missione Unifil – ma le condizioni atmosferiche, i movimenti della terra possono modificare queste coordinate». Una eventualità da non trascurare. Una mina potrebbe essere stata segnata sulla carta, ma non ritrovata sul terreno. È un dispositivo fantasma, marcato dai militari con un paletto con un cappuccio bianco alto poco meno di un metro e conficcato nel terreno. Una volta identificato l’ordigno, si contatta il supervisore di campo per chiedere l’esplosione. Una procedura ripetuta tredici volte dagli inizi di maggio: tante sono le mine ritrovate dagli artificieri della “Brigata Garibaldi” da quando sono missione al di là del fiume Litani. Hanno reso sicura un’area di 500 metri quadrati. Sembra un gioco da ragazzi, dove tutto è calcolato, anche se non sono ammesse sbavature perché si rischia di saltare in aria, come è accaduto ai cinquantasette sminatori che hanno avuto incidenti sul campo. I team si muovono con lentezza, spostandosi ogni giorno di un metro più in là. Per bonificare questo fazzoletto ci vorrà ancora tempo. Forse, anni.

Pubblicato dalla rivista: “Comunicare il sociale”

Stefania Melucci, Giornalista embedded Napoli

mercoledì 9 febbraio 2011

AFGHANISTAN, ARRIVEDERCI...

Raccontare l’Afghanistan non è semplice. È la storia di un paese bello quanto devastato, dalla povertà, dalla guerra, dall’ignoranza e dalla prepotenza. L’ultimo giorno lo passiamo di nuovo in centro ad Herat. Visitiamo la Mosche del Venerdì, uno dei più importanti luoghi di culto di tutto il mondo islamico. Incontriamo gli studenti, gli anziani, le donne, che pregano. Gli operai che lavorano. Qui c’è la produzione delle maioliche utilizzate per la realizzazione di quasi tutte le moschee del mondo. Parliamo con il maestro, è un saggio con la barba bianca e lunga. Ci affascina già soltanto il suo aspetto. Mi dice del lavoro, della vita dura e difficile qui in Afghanistan. Ha visto i russi e gli americani, è sopravvissuto al regime dei talebani e ascoltare le sue storie è come leggere un bel libro. Usciamo fuori, e la percezione della realtà cambia. Un paese che comunque ti resta del cuore. Come ti resta nel cuore la sua gente. Ha ragione Daniel quando dice che l’Afghanistan è un qualcosa di cui non puoi fare a meno. Perché forse davvero basta la tua presenza per aiutare chi ha bisogno, sia questo uzbeko, dari, pasthun. Andiamo via, lasciando qualcosa in sospeso. Come se quel poco che abbiamo fatto, che sia solo raccontare le difficoltà di una terra e l’operato di quanti qui lavorano, non sia sufficiente. Di questo viaggio porteremo con noi tante piccole cose che fanno grandi gli uomini. La paura e il destino, perché l’una non deve mancare e l’altro ci deve assistere. E così ripensiamo a quel razzo che non è partito in una fredda notte di fine dicembre, a quel viaggio rimandato… lì nella terra di nessuno, a quel kamikaze saltato non lontano da noi, a quell’ordigno esploso poco dopo il nostro rientro in base. Pensi e ti chiedi perché. E ognuno trova le sue risposte. Ogni volta che fai la valigia, è sempre tempo di bilanci. E a questi aggiungi dell’altro. Il senso di umanità, di dignità, di riscatto di un popolo che non vuole padroni e che vuole vivere secondo i suoi ritmi e i suoi tempi. Sempre fedele a non tradire l’antico valore dell’ospitalità. Torniamo a casa con la barba più lunga e con un po’ di raffreddore, preso tra tende ed elicotteri, e ci vengono in mente gli insignificanti episodi di questa esperienza. All’inizio non gli dai peso, ma quando stai per concludere il tuo viaggio, ci ripensi e resti con un sorriso sulle labbra. Le domande di Daniel sugli orari, i nomi e i gradi…che mi sembra essere ritornato per un attimo al mio quotidiano lavoro di ufficio stampa, al racconto di Vincenzo che parla di suo figlio, alle mille avventure di Antonello in giro per il mondo, ad Anna sempre in ritardo e a Milla che si aggira per la base con un sorriso gentile per tutti. C’è anche Maria Clara, ogni volta che la sera a mensa mangio la frutta. L’aereo parte per Roma. L’adesso è già passato, e già pensi al prossimo viaggio. Ti guardi indietro e c’è il volto di chi hai lasciato: Hamidullah e il suo piede ferito, l’ingegnere del ristorante e i suoi racconti da ex combattente, Mir che ti porta in giro per la città, e si. C’è anche Matteo. A lui ci pensi, spesso in questi giorni…e ti chiedi perché.

Mirko Polisano

AFGHANISTAN, MATTEO L'ULTIMO VIAGGIO...

La notizia non è stata ancora diffusa, ma in base a “Camp Arena” c’è un clima teso. Si rincorrono voci e indiscrezioni. Gli sguardi che si cercano per una conferma, mentre all’ufficio pubblica informazione di Herat c’è un via vai di gente e telefonate. Da Roma, da qui, dove i giornalisti affollano gli uffici. Poi, gli indugi vengono rotti. Un comunicato di tre righe: “militare italiano perde la vita in Gulistan”. Inizia così: è il gelo. Si tratta di Matteo Miotto, 24enne veneto di Thiene, in forza al 7° reggimento alpini di Belluno. Caporal maggiore, era in servizio in torretta nella C.O.P. (Combat Out Post) Snow in Gulistan, dove è di stanza la Task Force South East del contingente italiano dispiegato in Afghanistan, quando in uno scontro a fuoco con uno o più insurgents è stato prima ferito e poi ucciso.Nella camera ardente allestita per il caporal maggiore Matteo Miotto, la commozione ha regnato su tutto. Sulle facce dei suoi commilitoni, su quelle degli altri alpini, che, forse neanche lo conoscevano, ma come travolti da uno spirito di partecipazione globale hanno voluto esserci per il suo ultimo saluto qui in Afghanistan. Hanno voluto esserci come gli amici che hanno piantonato la salma tutta la notte. Hanno voluto esserci come noi, e come tutta l’Italia che da domani, all’arrivo a Roma, gli starà accanto, almeno per qualche giorno, almeno fin quando non si spengono i riflettori mediatici. Un ragazzo di 24 anni, strappato alla vita troppo presto, in un paese dove a regnare non sono solo i signori della guerra ma anche i clan, i ribelli, i combattenti. Lo scrive anche Matteo nella lettera che sta ribalzando di sito in sito. Strappato alla vita in modo troppo crudele, nel giorno dell’ultimo dell’anno, quando magari la sera si sarebbe preparato per andare ad una festa organizzata insieme ai suoi compagni di avventura, o sventura, dipende dai punti di vista. E qui, in Afghanistan, i punti di vista sono sempre labili, molteplici. A seconda dell’orientamento, prima i russi, poi gli americani, poi ancora i mujaedin, i combattenti, ora gli insurgents. Gli stessi che con un colpo diretto hanno fatto fuoco e centrato il bersaglio. Un bersaglio che ha un nome e un cognome: Matteo Miotto. Che questa volta non potrà rispondere “Presente!” o “Comandi”, quando lo nominiamo. Non potrà riabbracciare i suoi genitori, separati, ma uniti nel dolore, che quella notte di San Silvestro non la dimenticheranno mai. Non potrà raccontare ai suoi compagni di tenda quello che ha fatto oggi, rientrando da una giornata in torretta. Però il cuore di Matteo porterà con sé tante emozioni che un posto come questo ti offre di continuo. Quelle belle, come la speranza e la voglia di riscatto a lungo inseguiti dal popolo afghano, come quei bambini con i vestiti usati e le scarpe nuove, perché regalate dai nostri soldati, e magari anche da Matteo. Quelle brutte, come i pensieri che si fanno nel lince, come gli ordigni pronti ad esplodere. Nel pomeriggio, il comandante del contingente italiano in Afghanistan, il generale Marcello Bellacicco ha tenuto un incontro con i giornalisti. Ha parlato della situazione in Gulistan, area tra le più sensibili e ha annunciato più forze armate afghane per permettere ancora di più l’allargamento della bolla di sicurezza. Poi un pensiero ai ragazzi, ai suoi uomini, pieni di spirito di sacrificio e di servizio, non solo per la patria ma anche per le altre popolazioni in difficoltà. Ha parlato anche di orgoglio, quello di Matteo per il suo essere alpino, tanto da tatuarsi lo stemma della brigata “Julia” e quello che devono avere i genitori per il figlio che non c’è più. “Devono essere orgogliosi di Matteo - ha ribadito- come lo siamo tutti noi”. “Ora Matteo cammina su montagne più belle di queste- ha detto invece il cappellano militare nel corso della sua omelia, durante la messa di suffragio di oggi- l’imprevista chiamata del Signore per noi è difficile da capire, dio ha modo di pensare e agire diversi dal nostro”. Già per noi è difficile da capire tutto questo. Se potesse essere da qualche parte, ora, forse è vero, Matteo starebbe sulle montagne, come un buon alpino. Magari a rincontrare suo nonno e a farsi raccontare una di quelle storie. Ma no sulla guerra, una divertente per ridere e scherzare. Intanto, il C130 dell’Aeronautica Militare è partito. Matteo è lì dentro, avvolto da un tricolore. Domani rientrerà in patria. Noi restiamo ad Herat, in base c’è un monumento ai caduti. Ci passiamo davanti e leggiamo. Manca Matteo, l’ultima penna spezzata. Troppo in fretta.
Mirko Polisano

AFGHANISTAN, IN GIRO PER HERAT

Herat- 31.12.2010

“Khorasan è l’ostrica del mondo e Herat la sua perla”, recita così un vecchio proverbio riferendosi alla supremazia di questa città afghana nella regione che in epoca medioevale includeva gran parte dell’Iran e del Turkmenistan. Oggi, nel 2010, pardon, ormai nel 2011 non possiamo smentire questo antico adagio, dato che Herat, patria di poeti, studiosi, e filosofi si distingue tutt’ora come fulcro culturale del paese. Da Gengis Khan a Marco Polo, senza dimenticare gli altri invasori, in molti hanno cercato di sottometterla, ma Herat ne è sempre uscita a testa alta, puntando sulle sue bellezze e sui suoi abitanti, gentili e ospitali, come gran parte del popolo afghano. Nel briefing mattutino, la decisione che caratterizzerà la giornata di oggi. Usciamo. Da soli, senza la nostra scorta. Per conoscere questa città, capire i suoi cittadini: uomini, anziani, donne, che ci raccontano la loro vita. Chiamiamo Mir, un afghano di Herat, che ci fa da autista, da guida e da interprete. Daniel non vede l’ora e monta la macchina fotografica. Io, pronto a raccogliere le storie di questa gente. Per strada, come ho sempre fatto. È venerdì. Un giorno sacro per l’Islam. Ci avventuriamo nella Toyota bianca di Mir che parla solo inglese. Pensiamo di trovare strade deserte e saracinesche abbassate. Invece, è un brulicare di colori. Dal finestrino alla mia destra, è un continuo andirivieni di carretti sgargianti, motociclette, macchine improbabili, ragazzi che giocano a pallone, donne in burqua, e palazzi distrutti dalla guerra. Tocchiamo con mano, le meraviglie di questa terra. La “Big Moschea”, come la chiama Mir, è il santuario di Gazar Gah, uno dei luoghi più sacri di tutto l’Afghanistan. Qui incontriamo banchetti di venditori ambulanti, bancarelle di cappellini e libri religiosi, due ragazzi che su una panchina sorseggiano del thè, e poi una serie infinita di mutilati, diseredati che cercano soldi, aiuti. Non ci sono mai stato, ma sembrano le immagini che la televisione manda in onda quando si parla di Bombay ai tempi di Madre Teresa. È questa stessa immagine che vediamo nelle altre strade della città: sui marciapiedi, davanti ai negozi. Polvere, tappeti a terra e bisognosi. Il caos frenetico di una vera casbah ti porta a correre. Con Mir a nostro fianco ci avventuriamo tra i vicoli, tra i mercanti della città vecchia. È una fila interminabile di tende, arazzi, scarpe e bracciali dell’artigianato locale, ma anche di venditori di datteri, noci, pane fatto dai bambini e dolciumi lavorati a mano. Vogliamo comprare tante cose, ma il tempo è tiranno e poi con l’euro si fa poco da queste parti. Altra sosta ai minareti di Musalla, Mir ce li mostra e scherza con noi dicendo che li ha costruiti il progettista della torre di Pisa, perché pendono da un lato. Arguto. Anche se la realtà è diversa: i cinque minareti risultato particolarmente malinconici, baciati dall’ombra del sole. La strada che li collega favorisce il traffico e le vibrazioni prodotte dai veicoli di passaggio danneggiano le fragili fondamenta, rese già fragili dalla guerra. Usciamo dal sito e troviamo una brutta sorpresa: a Mir hanno rigato la macchina. Non lo diciamo, ma lo pensiamo, che forse è colpa nostra perché ha fatto da guida e da interprete a dei reporter occidentali. Per le vie della città intanto si sente il grido di preghiera. Entriamo nel complesso millenario della cittadella. Oltre tremila anni di storia ci passano davanti. È quasi ora di pranzo. Abbiamo fame e chiediamo a Mir dove possiamo andare a mangiare qualcosa di tipico. Ci porta in un ristorantino del centro. Mangiamo all’aperto sotto il sole, sui tappeti e senza scarpe, come è abitudine da queste parti. Riso, montone e tutti piatti tradizionali della cultura gastronomica afghana. Accanto a noi, il proprietario. È inevitabile scambiare con lui due parole. Proprio come facciamo a Roma, quando, ad ora tarda e a tavoli sparecchiati, con il ristoratore ci fermiamo a parlare di vino e cacciagione. Non sappiamo come si chiama, perché per tutti è l’”Ingegnere”. Così, mi racconta la sua storia. E’ laureato in ingegneria edile, è un tagiki e gestisce questo grazioso ristorante che accoglie una ventina di persone a pranzo e altrettante a cena. “Sono sempre aperto- spiega- anche nei giorni festivi, non posso permettermi di non lavorare”. Gli chiediamo dell’Afghanistan, mi risponde con una percentuale il 98% della popolazione è povera, il 2% benestante, “al contrario dell’Italia- afferma- dove i dati sono al contrario”. Ribattiamo con un “so e so”, così e così e ci scherziamo su. Poi mi racconta del 1982, dell’invasione russa. Che era una guerriglia continua e che si doveva scappare dai villaggi alla città. Così l’arrivo a Herat. E gli chiediamo perché non fa l’ingegnere. “Qui non c’è bisogno di ingegneri. I progetti vengono valutati dagli internazionali ed eccomi qui a cucinare riso e pollo”. Ci parla dei rapporti con l’esercito italiano, di Isaf e che è necessario rimanere in Afghanistan per il bene del paese. E sul domani? “Impossibile pensarci. L’Afghanistan non ha una prospettiva futura. Forse solo un barlume di speranza e basta”. Rientriamo sulla via di casa, della base, pardon. Al benzinaio, troviamo un sedicenne in moto. Lo intervistiamo. “La motocicletta è la mia passione- dice in un perfetto inglese- l’ho comprata nuova”. Anche lui non ha progetti futuri e non solo come l’”Ingegnere”, ma come tutti i ragazzi della sua età. Come tutto il suo popolo. Ma ha il sorriso sulle labbra. Quel sorriso, che a noi viene meno quando arriviamo in base. In Gulistan, dove dovevamo essere oggi, c’è stato un conflitto a fuoco. È morto un ragazzo. Uno dei nostri. Speriamo che questo 2010 vada via in fretta.

Mirko Polisano