giovedì 1 maggio 2014

ASANTE SANA, AFRICA! IL PAESE CHE TI TOGLIE IL RESPIRO...


Quando arrivi ad Addis Abeba ti manca il fiato. Il sole è forte, anche se è sorto da poche ore. L’altitudine ti dà questa sensazione di asfissia, anche se con la mente pensi possa essere il paesaggio, la città, l’Africa. L’Etiopia è ancora un paese che parla italiano, dove il traffico è peggio di quello di Roma e dove il caffè è davvero buono. Per le strade della capitale, ancora puoi incontrare i figli della guerra e della povertà. Come quei bambini che si nascondono allo stadio perché essere orfani e soli qui è un reato. La legge è rigida e severa. Le donne hanno un fascino che ti travolge e le pene sono inasprite anche per gli italiani amanti del turismo sessuale che ora rischiano il carcere se scappano in caso di gravidanza. Viaggiamo su mezzi strani e improbabili: un bus affollato e carico di umanità, un ape attrezzato a taxi. Qui li chiamano “banjangi” e con pochi euro ti portano ovunque: dai sentieri non asfaltati alle sterminate distese di sabbia rossa. Anche l’aereo non è di quelli sicuri. Sembra il charter dei film di Pozzetto e Villaggio, manca solo il lavavetri che compare mentre sei in volo. D’altronde, la stagione delle piogge non è ancora conclusa e i temporali sono intensi ma brevi. Ci spostiamo a Dar es Salaam, capitale della Tanzania. Anche qui il traffico ti accoglie e come in una veloce sequenza ti appaiono al finestrino venditori di tutto: banane, arance, patate, palloni, dvd e perfino coltelli e bastoni. Di notte, le strade sono presidiate da militari e guardie armate: la sicurezza è un serio problema, soprattutto se sei bianco. Arriviamo nel periodo della Pasqua e della festa nazionale, che proprio quest’anno fa celebrare alla Tanzania i suoi primi cinquant’anni di unità. Il nazionalismo è molto sentito: in tv, tutti guardano la cerimonia ufficiale e il silenzio nei locali ti colpisce. Così come nelle scuole, dove i bambini prima di entrare in classe cantano l’inno e omaggiano la bandiera. La religione è l’altro perno di questa società. Islamici e cattolici vivono nel rispetto reciproco. Nel giorno di Pasqua, viaggiamo per le città del sud, al confine con il Mozambico, e siamo trascinati in balli popolari e coinvolgenti per la festa più importante del mondo cristiano. In alcuni hotel, invece, sono rigide le pratiche musulmane, soprattutto quelle del divieto di consumare alcool e di dormire insieme per le coppie non sposate. La differenza la noti solo nei nomi: i biblici Moses, Ellen e Natalia sono di estrazione cattolica, Mohamed e Abduramein, di facile intuizione. Nei villaggi, il football resta l’amore della vita. Non importa di quale squadra, l’importante è indossare una maglia da calcio. Messi e Torres sono i beniamini di sempre e Arsenal, Chelsea e Barcellona vivono il loro sogno della Champions League. E le partite di pallone si giocano con una palla fatta di buste di plastica e con uno scarpino alternato nella migliore delle ipotesi ad una ciabatta oppure se proprio va male, ad un piede scalzo.  Hassan è un insegnante di storia. Vorrebbe lavorare all’università il prossimo anno, ma per ora si accontenta delle elementari. “Ho scelto queste classi – mi racconta – perché i più piccoli non parlano l’inglese e io posso insegnarglielo. La bellezza è nelle fondamenta e questi bambini sono le basi di questa società”. Qui andare a scuola, è ancora un privilegio. Può permetterselo solo chi ha una divisa. Di notte, una sera arriva Addara. È stato uno dei primi ad avvicinarsi a Carla per chiedere di studiare. Lei gli regala la divisa per frequentare la primary school. Ha preso la licenza: oggi è un insegnante. Già Carla. Lei, romana di Centocelle, che in questa terra ritrova ogni volta se stessa. Con l’associazione Silenas, qui porta alimenti e medicine. “La cosa bella – mi racconta un giorno – è che quando porto un po’ di riso, fagioli o ugari loro sanno che devono dividere tutto”. Il suo impegno oggi è per costruire una casa famiglia per 40 bambini abbandonati e un punto di primo soccorso perché qui le donne ancora partoriscono per strada e la malaria è sempre un’emergenza. Questa resta una terra contesa. Il pericoloso Mozambico lascia alla porta volontari e reporter: è troppo pericoloso per entrare. Il paesaggio è indimenticabile e i baobab segnano i punti di congiunzione di questo continente, come in una settimana enigmistica dove devi collegare l’uno con i successivi per tirare fuori la vera immagine. Il Terzo Mondo è questo e non è, poi, così lontano. Come non sono lontane e sconosciute le scene dei bambini con le mosche sul naso o la pancia gonfia. Anche l’Aids resta un tabù e chi contrae la malattia è costretto ad indossare un segno giallo che dice: “io ho l’aiz”. Si perché la malattia passa ancora per il contagio da contatto, e questo stereotipo è difficile da combattere. Intanto, russi, cinesi e arabi hanno trasportato qui i loro interessi: il Burundi, per esempio, a due passi da qui, sulle riviste specializzate è già sponsorizzato come sito per importanti investitori stranieri. Il ponte che collega la Tanzania al Mozambico è ormai ultimato e la storia del gas è sempre una plausibile giustificazione a tutte le guerre. Io, ritorno in Italia. Altro paese difficile e lascio qui il mio “saluto bianco”, come diceva Sèdar Senghor, poeta senegalese ideatore della Negritudine. Quel saluto che va “al di sopra dei reticolati”.


Dell’odio e dell’idiozia. 



Mirko Polisano

Una carezza dall'Africa