giovedì 27 gennaio 2011

Auschwitz e Birkenau: pensieri e emozioni dei ragazzi delle scuole del territorio.

Il dolore di un uomo

L’inferno è questo
Ed io mi ritroverò fermo.
Una camera grande e vuota
Ed io aspetto qualcosa.

Non ho più niente addosso,
i miei abiti sono un fagotto.
Perché nessuno mi viene a cercare?
Avrò fatto qualcosa di male?

Entra un vento gelido,
il freddo mi ha rapito.
La testa mi hanno rasato
È successo tutto per caso.

La mia mente torna a casa
Insieme alla mia mamma amata
Sento ancora più dolore
E non mi escono più parole…

(Scuola Media Giuliano da San Gallo – Ostia).

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Ricordi

Ricordi…
Dolci aspre immagini
Sfocate
Frecce affilate…
Urla soffocate
Dolore pulsante,
dolore invadente…
Altri colpi…
Altre innocenti vite spezzate
Senza ragione…
Solo per il loro Dio…Per una stella…
Fucili assassini
Ingordi di animi umani;
altri spari
altro dolore…

Ma qualcuno spera
Qualcuno crede
Qualcuno prega
Che tutto ciò finisca
Che sia solo vago,
doloroso, incancellabile ricordo.

(Giulia Chierici, Classe III B – Scuola Media Vivaldi- Ostia)

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La Pazzia:

Le ombre del passato pesano,
ritornano nella mente di chi le ha vissute,
vagano in quella di chi le ha ascoltate.

Non ci sono perché accettabili,
giustificazioni plausibili
l’uomo può essere disumano,
la follia può generare mostri…

Cos’è un incubo?
Purtroppo è la triste realtà
Migliaia di vittime,
anime innocenti,
ebrei ingannati e costretti a soffrire…

Per cosa tutto ciò?
Per una razza pura?
I nostri cuori piangono,
ma le lacrime non riescono a lavare il dolore,
La sola speranza che ci rimane
È il ricordo che, incancellabile,
ci aiuti a non ripetere quel terribile errore.

(Valentina Carami III B- Scuola Media Vivaldi - Ostia)



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27 GENNAIO 2011


Compatti come pacchi di dolore
I deportati
Colmavano il convoglio
Che correva sui binari.
Nessuna luce brillava
O inteneriva le fessure dei vagoni.
Così la vita
Divenne vertigine crudele
E campi intrisi di ulteriori orrori.
Era vecchissimo il mondo
In quel tempo desolato.



Oggi rabbrividiamo di vergogna
E perché non si ripeta quel dolore
Ricordiamo tutti i Morti
Che non possiamo sostituire.

(Classe III B Scuola Media Vivaldi – Ostia)

Auschwitz e Birkenau: La scritta “Arbeit macht frei”

All’ingresso del campo di concentramento di Auscwitz è ancora visibile la scritta “Arbeit macht frei” che sovrasta la cancellata, eseguita dall’internato Jan Liwacz. L’idea di porre la scritta ad Auschwitz è probabilmente dovuta al maggiore Rudolf Hob, primo comandante responsabile del campo di sterminio; la frase, comunque, costituiva il titolo di un romanzo del 1872 dello scrittore tedesco Lorenz Diefenbach. I prigionieri che lasciavano il campo per recarsi al lavoro, o che vi rientravano, erano costretti a sfilare sotto il cancello d’entrata accompagnati dal suono di marce marziali eseguite da una orchestra di deportati appositamente costituita. Contrariamente a quanto rappresentato in alcuni film, la maggior parte dei prigionieri ebrei era detenuta nel campo di Auschwitz II - Birkenau e non passava quindi da questo cancello. Questo motto era presente in molti campi di concentramento e sterminio (ed è ancora presente per memoria storica nei campi dismessi) tra i quali: il campo principale di Auschwitz, Dachau, Flossenburg, Gross-Rosen, Sachsenhausen e al ghetto-campo di Terezin.

Emanuela Sirchia

Auschwitz e Birkenau: avamposto del terrore e della morte.

Nel ’44 tante erano le esecuzioni che le ceneri venivano sparse dappertutto, nei prati circostanti e nei fiumi, e chi arrivava nei lager veniva dirottato subito nei forni. Dopo le docce i corpi venivano messi nei crematori da altri prigionieri! A loro volta poi eliminati per non lasciare testimoni. Il lavoro rende liberi e si lavorava anche 11 o 14 ore al giorno oppure, per tenere impegnati i poveretti, li si costringeva a fare movimenti ginnici tutto il giorno. Unica speranza era la nebbia che non permetteva di muoversi dai blocchi. Non ci si poteva guardare l’uno con l’altro altrimenti era morte certa. Anche mangiare era un eufemismo. La colazione era un liquido nero simile al caffè, il pranzo brodaglia, la cena un pezzetto di margarina e un tozzo di una specie di pane (tutto questo documentato in una teca). In quattro mesi si dimagriva anche 20 o 30 chili ed era la morte. Per chi veniva imprigionato (blocco 11 dove c’è anche la cella di padre Massimiliano Kolbe) c’erano varie forme di torture. Una per tutte, la morte per soffocamento: in un metro quadrato in quattro murati vivi e la fine arrivava lenta. Esperimenti e torture erano all’ordine del giorno; i medici delle SS amavano “studiare” i cadaveri non certo per la scienza ma per macabra soddisfazione. Le prigioniere decedute incinte di gemelli venivano analizzate accuratamente. Si calcola che i minori deportati siano stati 232mila, di questi 700 si sono salvati grazie alla Liberazione. Poco lontano ecco Birkenau, Auschwitz non bastava più a contenere i diversi da annientare che arrivavano da tutta Europa. L’immensa distesa è divisa in due dai binari che accoglievano i treni che portavano direttamente i deportati nel campo, anche qui, divisione delle persone e poi subito nelle capanne, non più in costruzioni in muratura; la maggior parte di queste sono andate distrutte, forni crematori compresi, dagli stessi tedeschi che quando hanno capito che era vicina la loro fine hanno appiccato il fuoco, come a voler nascondere il loro operato. Ed anche qui la vista di quel che resta si intreccia con l’immaginazione di istanti vissuti dalle vittime dell’odio. Ci vengono in mente scene di vita e di
morte: mamme che stringono i figli che poi vengono loro strappati. Padri e madri divisi dai figli, sorelle dai fratelli, mogli dai mariti. Violata la minima intimità, annientata la propria dignità e identità. Ed ecco i giacigli dove “vivevano” ammassati, mangiatoie di legno a tre piani, il primo, quello rasoterra, era nel fango o nella neve che filtravano dalle fessure superiori ed inferiori. Ogni giaciglio naturalmente “accoglieva” più persone in uno spazio più che minimo. Ecco la latrina, una lunga sequenza di fori per defecare e urinare a orari stabiliti. I lavandini, ma l’acqua non scorreva di certo a fiumi. E anche qui ecco i più “fortunati” addetti alla pulizia delle latrine. Le esalazioni mantenevano il caldo in inverno e gli addetti erano più liberi perché lì, i soldati tedeschi non entravano facilmente a causa del fetore. Questo è il racconto di quanto accaduto non secoli fa ma soltanto ieri. Il racconto di quanto commesso non da esseri di un altro pianeta ma di questo. Una testimonianza affinché non accada più. Mai più.

Emanuela Sirchia

mercoledì 26 gennaio 2011

Auschwitz e Birkenau: viaggio tra le atrocità dei lager tedeschi per non dimenticare. Mai.

AUSCHWITZ - È caldo il sole e sono verdi gli spazi verdi tutt’intorno. Se non fosse per quella lunga sequenza di filo spinato che circonda i vialetti che dividono le costruzioni e se non fosse per il fatto di sapere dove si è, si potrebbe pensare ad una qualsiasi rassegna di vecchie e consumate costruzioni. Sappiamo e abbiamo già attraversato il cancello sul quale è scritto “Arbeit macht frei” (Il lavoro rende liberi) beffardo benvenuto per un milione e mezzo di persone che non solo in questo luogo non hanno trovato la libertà ma hanno sofferto atrocità e hanno trovato la morte. Siamo a Oswiecim, cittadina a circa sessanta chilometri ad ovest di Cracovia, quella che i tedeschi hanno chiamato Auschwitz. Al tempo della prima guerra mondiale era una caserma polacca, gli stessi tedeschi la trasformarono nel complesso diventato il lager principale per ebrei e per chiunque fosse “diverso”, per etnia, religione e per scelte personali, compresa l’omosessualità. Oggi è il museo di Auschwitz, con il vicino campo di Birkenau, avamposto dell’orrore e della distorsione umana. Nessun documentario, nessun film per quanto fedele possa essere, rende l’idea dell’abisso, dell’atrocità, dell’assurdità di tanto odio. Nessuna parola è abbastanza per descrivere l’impotenza davanti a tutto questo. La rabbia lascia il posto alla sorpresa per l’inverosimile messo in atto qui. Auschwitz è diviso in blocchi. Gli ex alloggi per soldati polacchi oggi sono testimonianza di paura e morte. I diversi (zingari, omosessuali, testimoni di Geova) e gli ebrei, arrivavano da tutto il mondo per essere annientati e una volta giunti sul posto veniva messa in atto la prima nefandezza: la divisione, quella tra uomini e donne che spaccava famiglie. Ma ce ne era un’altra, quella che portava subito a morte e che riguardava le persone disabili, gli anziani e i malati. Non servivano a nulla, nemmeno ad operare per quei circa quattro mesi di vita (tanto durava l’esistenza nei campi) a lavorare per i soldati. E allora via a “fare la doccia” dopo il lungo viaggio che per portare ad Auschwitz poteva durare anche due settimane e in vagoni che servivano quale trasporto di giorno, per dormire di notte, ma anche per urinare e defecare. Dallo spogliatoio dove lasciavano valigie e se stessi, si spogliavano dei vestiti per poi andare sotto le docce. Finte. In alto piccole botole lasciavano cadere anziché acqua, sassolini di cianuro. La morte durava dai dieci ai venti minuti. L’ultimo atto era il forno crematorio per non lasciare traccia. La guida ci dice che la puzza acre arrivava a 15 chilometri di distanza. Per chi veniva risparmiato!! c’era il lavoro e i più “fortunati” erano quelli che sapevano fare qualche mestiere: barbieri, sarti, falegnami e altri lavori. E tra i “fortunati” c’erano i musicisti che improvvisavano momenti di intrattenimento. Nei vialetti si marciava, ogni fila era composta da cinque persone così per i tedeschi era più facile contarli. Nei vialetti si moriva e chi, per la disperazione tentava la fuga attraverso il filo spinato c’era comunque la morte. I soldati preferivano uccidere gli aspiranti suicidi prima che si arrampicassero sul filo spinato attraversato dall’elettricità: viceversa sarebbe stato complicato staccare i brandelli di carne dagli steccati. Negli stessi vialetti si poteva morire alla forca (numerose quelle esposte) o per fucilazione davanti al muro della morte e nel cortile della morte. Una eventualità molto rara: si faceva troppo rumore e si spendeva troppo in munizioni, meglio il silenzioso cianuro (molte le scatole esposte che lo contenevano). E tra gli oggetti esposti, il blocco 4 conserva tonnellate di capelli custoditi in enormi teche di vetro; i prigionieri venivano infatti rasati ma non era un’ attenzione nei loro confronti. Evidentemente, crediamo, era la paura di prendere i pidocchi. Nel blocco 5 altre enormi teche conservano gli occhiali, i paramenti ebrei, le stampelle dei disabili, bacinelle, padelle, oggetti personali portati con le valigie, anche queste a migliaia. Ognuna con il nome e la data di nascita: Marta, Klement, Eva… ed ancora, cesti di vimini che erano serviti per il cibo durante il viaggio, migliaia e migliaia di scarpe, una montagna e di tutti i tipi, le scatole con la crema per pulirle e spazzole per capelli, pennelli per la barba. In una teca più piccola scarpine e camicine appartenuti ai prigionieri più piccoli. Altri oggetti più preziosi erano preda dei tedeschi. Lungo i corridoi migliaia di foto (tre per ognuno) ma con il tempo i poveretti non venivano più fotografati: erano ormai troppi. Ben presto dalla capienza di 700 i blocchi si ritrovarono ad ospitare 1000 prigionieri (il primo trasporto avvenne nel ‘40). Auschwitz e Birkenau cimiteri senza tombe…

[CONTINUA…]

Emanuela Sirchia

martedì 18 gennaio 2011

AFGHANISTAN, INCONTRO CON IL GOVERNATORE DI FARAH

Farah – 30.12.2010

Lasciamo il villaggio di corsa. Qualcuno ha notato un movimento strano. E non è il solito furgone che passa, portando con sé sabbia e polvere. Abbiamo l’elicottero che ci aspetta per cambiare di nuovo base. Ne abbiamo girate tanti in questi giorni e ne gireremo ancora fino ad arrivare all’estremo est dell’area di responsabilità italiana. Nella zona dell’eliporto, saliamo su un “Super Puma” dell’aeronautica spagnola. Prima del check-in, seppur veloce visto la procedura militare, incontriamo il governatore della provincia di Farah, Amin che parte con noi anche se volerà con gli americani. Conosce bene l’inglese, è molto disponibile e non si risparmia alle nostre domande. Cosa ne pensa dei soldati italiani che lavorano qui a Farah? “Non posso che pensarne bene- risponde- stanno facendo un ottimo lavoro, soprattutto per quanto riguarda il settore della cooperazione e dello sviluppo di questo paese. Proprio a Farah, stanno portando avanti importanti progetti per la popolazione. C’è sintonia anche sugli interventi da apportare”. Un modus operandi che mira a raggiungere gli obiettivi? “Sicuramente –conclude- e la cosa importante è che le scelte sono condivise e partecipative. Non si decide nulla se non si passa per le shure, i capi-villaggio, le realtà territoriali”. Le pale dell’elicottero già sono in azione, c’è poco tempo e il governatore Amin è costretto a salutarci, anche perché gli spagnoli sulle disposizioni militari sono intransigenti. Così anche noi prendiamo il nostro volo: destinazione Herat. Si ritorna in base, ma pronti a ripartire…

Mirko Polisano

lunedì 17 gennaio 2011

AFGHANISTAN, IL VILLAGGIO DI KHAYRABAD

Farah – 30.12.2010 Ci muoviamo che è ancora notte. È strano vedere nel cielo il sole e la luna contemporaneamente. L’uno sorge, l’altra va a riposarsi. Il cielo in Afghanistan ricorda quello di carta pesta che in questo periodo si trova dietro i presepi di tutte le case. È proprio così: la via lattea, l’orsa maggiore, tutto facilmente riconoscibile ad occhio nudo. E le stelle, tante stelle. “Ne ho vista una cadere”, esclama un primo maresciallo. Chissà quale sarà il desiderio espresso. Saliamo su un altro lince. Questa volta è Nuccio, il mio caposcorta. Siciliano, come tutta la sua pattuglia ad eccezione del “romano”, che viene da Centocelle. Si va verso il deserto, per raggiungere Khayrabad, nella periferia desertica di Farah. Arriviamo di prima mattina ed entriamo in un agglomerato di case e tende. Qui, ci riceve il capo-villaggio e una delegazione di “anziani”, di donne neanche a parlarne. E poi, bambini. Tanti e di tutte le età, che aspettano il loro momento. I ragazzi del reggimento lagunari “Serenissima” consegnano alla popolazione una capra. “E’ un regalo fatto al nostro comandante- spiegano- che ha voluto donarlo agli abitanti di questo villaggio. Con una capra ci mangiano in tanti”. La delegazione del villaggio prende in consegna l’animale, mentre il resto delle persone si ferma pochi metri più in là. Intanto, si scattano foto. Atawala, questo mi sembra il suo nome, è un ragazzo che apparentemente non gli si può dare un’età. Si attacca alla mia felpa e con un tono sostenuto mi dice qualcosa del genere: “mercandalla, mercandalla”… non so cosa significhi. Non so che lingua stia parlando. Qui in Afghanistan i dialetti sono molti, come i gruppi etnici: pashtun, tagiki, hazara, uzbeki, kuchi. Ma il senso lo intuisco dal dito indice puntato contro di me, vuole la mia telecamera. Provo a spiegargli che quello strumento è il mio lavoro. Ma stavolta è lui a non capire me. Alla fine mi allontano lentamente, affiancandomi ai nostri militari che vanno a fare un sopralluogo ad un pozzo. Uno dei dodici che stanno costruendo nella provincia di Farah. I lavori sono a buon punto e presto anche questo villaggio sarà dotato di acqua. L’ultimo atto della giornata di oggi si consuma tra le emozioni. Dopo la consegna di coperte e beni di prima necessità, arriva quella delle merendine. È difficile per chi fa il mio lavoro rimanere senza parole. Lo rimaniamo davanti allo sguardo dei bambini e delle bambine che corrono a prendere il loro sacchetto. Ecco, è arrivato il loro momento. “Micio” mi guarda, e mi dà la busta con i cornetti: “prova a darglieli anche tu…e poi mi dici come ti senti, dopo”. Mi metto anche io a distribuire le merendine. Una bambina, si avvicina. E sorride. Eh, si…davanti a ciò si rimane senza parole…



Mirko Polisano

domenica 16 gennaio 2011

AFGHANISTAN, RIENTRO A FARAH TRA CHECK POINT E VILLAGGI SPERDUTI...

Bala Baluk – 29.12.2010

La colonna è pronta a partire. L’Advance Combat Recognition Team, composto da un Buffalo e due Cougar, è già andato da poco più di un’ora. Ci fa da apripista. Il braccio meccanico e i robottini sono pronti ad individuare eventuali I.E.D., esplosivi non desiderati. Di quelli che ti fanno saltare in aria, senza neanche che te ne accorgi. Dopo la colazione in base, si parte alla volta di Farah, sempre a seguito del Reggimento Lagunari “Serenissima”. È ancora Carmine il mio caposcorta, il suo sguardo teso e attento non lascia trasparire la tensione di chi ha appena saputo che dovrà percorrere l’asfaltata 517, l’odiata 517, dove l’attentato è dietro l’angolo. Prima di salire sul lince, penso a questi ragazzi, a come svolgono il proprio lavoro: così difficile, così duro. Ai loro discorsi. Poi basta uno scherzo, una risata tra di loro e l’ansia è meno pressante. Imbocchiamo la “RingRoad”, chiamata così dagli americani, perché è la strada che gira intorno a tutto l’Afghanistan, la stessa che collega Farah ad Herat e Herat a Kabul. Alla nostra destra, qualche villaggio nella piana desertica. A sinistra le montagne, incastonate nel cielo e coperte da una nube di polvere. Attraversiamo i villaggi, uno ad uno. Il primo, sperduto senza neanche il nome. Poche case, diroccate. Un uomo con il suo turbante in testa e lo sguardo penetrante pascola con i suoi dromedari. Più in là una donna. Coperta. In un fiumiciattolo che sgorga acqua sporca lava una pentola di rame. Il suo atteggiamento è furtivo, schivo. Carmine mi spiega che alle donne non è permesso di farsi vedere in pubblico senza il marito, al massimo davanti alla propria casa. Lui, di donne in giro da sole e per giunta a volto scoperto ne avrà viste due in quattro anni di Afghanistan. I check point della polizia afghana scandiscono il tempo e il percorso. C’è apprensione, quando tagliamo a metà il villaggio di Shiwane. È una roccaforte dei ribelli. Dobbiamo anche fare una deviazione. Una voragine nell’asfalto ci fa capire che proprio qui all’inizio di dicembre c’è stato un attentato alla colonna italiana di ritorno da Bala Baluk. A morire però fu un militare afghano dell’A.n.a. C’è silenzio, quando si passa nel punto dove ha trovato la morte il caporal maggiore Di Lisio, dell’ ottavo reggimento Genio Guastatori. Poi il sorriso di un bambino che chiede una merendina ti riporta ad un’altra realtà. Quella della lotta alla miseria. Una miseria fatta di piedi scalzi, di fogne a cielo aperto, di dispersione scolastica, di ruote di biciclette bucate. Di uomini, sdraiati a bordo strada, che thè alla mano parlano senza fretta e senza affanno. È l’”afghan time”, come lo chiamano da queste parti, calma e serenità. I colori della frutta e delle spezie sono il biglietto da visita del mercato del centro di Farah. Gremito di persone. File di motociclette variopinte e profumi orientali sono i protagonisti di questo metà bazar metà casbah. Un punto di incontro. Il pane è attaccato alle pareti, le arance ben disposte nelle casse. Il via vai di ambulanti e acquirenti dà un po’ di caos alla vita tranquilla che sembra scorrere da queste parti. Usciamo, ma prima di entrare in base, un bambino ci guarda con gli occhi della speranza. Dalla ralla, arriva una busta di cornetti. Saluta la telecamera e partiamo. È contento. Noi, forse, più di lui.


Mirko Polisano

giovedì 13 gennaio 2011

AFGHANISTAN, A TU PER TU CON L’A.N.A. AFGHAN NATIONAL ARMY


Bala Baluk – 28.12.2010

Si continua a respirare polvere nella base avanzata di Bala Baluk. Dopo un briefing tecnico, con il capitano Simonetti parliamo dell’attuale situazione in cui versa questo quadrante dell’Afghanistan meridionale. Ci spiega le diverse forze militari che ora, attraverso la missione Isaf, hanno la possibilità di far rinascere il paese. Non solo l’esercito italiano, ma anche l’Ands, Afghan National Defence Service e l’A.n.a., Afghan National Army, l’esercito afghano per intenderci. Ci colpisce una sua frase: “non si potrà mai costruire il futuro se non ci sono le coscienze individuali, formate dai valori: il senso di nazione, lo spirito di lealtà, il principio di dignità”. Il riferimento è diretto, chiaro, pesante, se vogliamo. Pensiamo ad un popolo, a quello che è rimasto di esso, e che tenta di sopravvivere attraverso mille espedienti. Statistiche provate parlano di un alto tasso di corruzione tra le forze afghane, che cercano di guadagnare tra i soldi degli “internazionali” e la fiducia degli “insurgents”. È quello che potrebbe accadere in un qualsiasi villaggio, a Tak Tahemur, per esempio, dove i militari locali non intervengono per sanare la società dalle infiltrazioni dell’estremismo talebano. È troppo rischioso per loro e per i loro cari. La minaccia non si fa di certo attendere. E così o si dà loro il tempo di fuggire e poi si interviene; oppure l’operazione di “pushing”, vale a dire di “spinta” dei cosiddetti ribelli verso il Gulistan, dove lavorano i nostri alpini, salta. Incontriamo personalmente Big Murad Murad, tenente colonnello comandante del Kandak (battaglione) afghano, vicino di casa della Fob italiana a Bala Baluk. Ci parla delle difficoltà del suo paese e dei suoi soldati, costretti a vivere in una caserma fatiscente, in condizioni igieniche poco dignitose e con armi e divise che di battaglie sembrano averne fatte molte. “Il problema numero uno – spiega il comandante Murad- resta quello della sicurezza: a Bala Baluk, come in tante altre zone dell’Afghanistan. I ribelli non si arrendono e sono pronti a tutto pur di non arrendersi alla cacciata”. L’ospitalità afghana è pari a quella di qualsiasi altro paese orientale dove il forestiero è sempre il benvenuto, e guai a rifiutare l’offerta. Tra un thè e un dolcetto tipico, chiediamo quali sono i rapporti tra l’esercito italiano e quello afghano. È lui stesso a parlare di collaborazione e di militari dal volto umano, pronti ad aiutare la popolazione: dalla distribuzione di coperte ai disagiati, ai tanti progetti portati a termine a Shindad. Tra questi, il corso di computer e di informatica per le donne afghane, il processo di scolarizzazione per i bambini e la costruzione di un campo da calcio, virtù italica dove non siamo secondi a nessuno, per avviare i giovani allo sport. Il clima conviviale e di conversazione è rotto dalla domanda gelida di Daniel che senza mezzi termini chiede se l’esercito afghano è pronto ad andare da solo, senza Isaf, se l’Afghanistan è davvero autonomo senza Isaf, considerato che il 2014, termine annunciato dal ministro Frattini e dal Presidente americano Obama, come fine della missione, è dietro l’angolo. La risposta è delle più diplomatiche: “Non posso rispondere ora- tuona il tenente colonnello- ci vuole tempo. L’esercito afghano per ora non ha una sua organizzazione, non ha un parco armi come l’esercito italiano o come Isaf. C’è bisogno di una leadership capace, con comandanti che vogliono davvero il bene di questo paese. Quando andranno via gli internazionali, è necessario e indispensabile che continui il loro supporto economico”. In altri termini, potete anche andare via…ma i soldi, no quelli ce li dovete lasciare.

Mirko Polisano

mercoledì 12 gennaio 2011

AFGHANISTAN, IN BASE CON OTTIMISMO...NONOSTANTE LE DIFFICOLTA'

Bala Baluk – 28.12.2010

Per fortuna che c’è Bulldozer. In molti la pensano così, qui nella base di Bala Baluk, ultimo pezzo di terra dell’Afghanistan italiano. I soprannomi in ambiente militare sono molto diffusi: c’è “micio”, “don” e “baffo”, che racchiude un po’ tutti perché indica il sottoposto di qualcuno e, tra i graduati, c’è sempre un sottoposto di qualcuno. Ma questo è particolare, perché Bulldozer non si ferma davanti a niente e nessuno. Leggenda narra che il sergente maggiore Fiore Damiano è sempre pronto ad accendere fuochi e fornelli per cucinare pasti caldi ai suoi commilitoni. Anche alle due del mattino. Da qui, l’epiteto che non lascia dubbi. E fa bene Bulldozer a non fermarsi, perché qui le criticità sono tante. A partire dal mangiare. Il comandante della F.O.B., Luigi Puce, ci ha spiegato che è grazie a lui che si è riusciti a trascorrere le festività natalizie con pranzo e cena degni di tradizione, visto che ha messo da parte come fa un buon padre di famiglia, pasta, pesce e qualche bottiglia di vino. Già perché a Bala Baluk nulla è dato per scontato. La mattina non c’è il latte, e si è costretti ad accontentarsi del thè, il caffè è affidato alla buona volontà di alcuni, mentre il pane è un optional di cui si può fare benissimo a meno, perché qui non arriva. “Non c’è neanche la coca-cola!”, esclama Nino, un sottufficiale originario della provincia di Messina che vive a Venezia. Non solo il rischio della vita, ma sono anche queste le difficoltà che devono fronteggiare i nostri militari in uno degli avamposti più a rischio. Professionisti pronti a tutto ma che, a volte, non vengono ricambiati con la stessa moneta, per intenderci. Certamente non ci sono tutti i comfort di una base, come l’internet point, o la sala telefoni, dove ci sono incarichi e competenze comunque diverse. Il lavandino dell’infermeria perde da un tubo, i bagni sono insufficienti: otto per oltre 200 persone e spesso si intasano. Anche per i cani c’è poco spazio. Tango dell’unità cinofila deve correre nell’area Z.A.E., la zona atterraggio elicotteri, quando ovviamente questi non arrivano o decollano. Di notte, abbiamo fatto un giro nelle tende e anche lì ci sarebbe da pensare. Brande ovunque, qualcuna anche con una tela protettiva, una sorta di baldacchino. Chiediamo cos’è e ci risponde un giovane sergente che ci spiega che è un riparo dagli insetti e dai ragni-cammello che pure qui si trovano. Una tenda gonfiabile di queste costa all’incirca 18 mila euro, e basti pensare che con 15 mila ci si può costruire un’intera palazzina, da queste parti. Anche su questo dobbiamo riflettere.

Mirko Polisano

martedì 11 gennaio 2011

AFGHANISTAN, HAMIDULLA’ E I SUOI SOGNI DI BAMBINO…


Bala Baluk – 27.12.2010


La notte è fredda in tenda a Bala Baluk. Il riscaldatore è in blocco e non chiamiamo nessuno per farlo riparare, tanto ci sono i sacchi a pelo. Ma fuori è quasi il gelo e neanche questi ci tengono al caldo. Non vediamo l’ora che arrivi il giorno. Sveglia mattutina, fissata per le ore 8.00. Buongiorno ad Italo, maresciallo del reggimento Lagunari “Serenissima” che ci accompagna da Farah, e colazione tutti insieme con thè e biscotti. Il caffè non c’è. I rifornimenti sono pochi e bisogna accontentarsi, per fortuna che c’è quello di Giovanni, un sergente maggiore che spontaneamente su ordine del comandante si è offerto di prepararci il caffè. Davvero, ottimo. Il più buono degli ultimi dieci anni, afferma Daniel. Con il comandante facciamo il giro della base. In torretta, troviamo Daniele, Primo Caporal Maggiore, che davanti ad una mitragliatrice Browning fa la guardia all’ “Russian Hotel”, ex albergo russo, oggi avamposto di mine e bombe. “Stiamo attendi a difendere la nostra base”, ci dice. Lo stesso lavoro lo fa Natascia Masciovecchio, 25 anni di Pescara. “Anche io mi occupo della sicurezza esterna della F.O.B. – afferma con fierezza- qualcuno ci parla di paura, ma chi fa questo lavoro, proprio perché preparato e professionale non ne ha. Qualche timore, si”. La mattinata è bruscamente interrotta dalla visita di Amir e di suo figlio Hamidullà. Una storia toccante. Hamidullà è un bambino di cinque anni, forse. Perché qui in Afghanistan, l’anno si riesce più o meno a recuperarlo, il giorno e il mese di nascita è a dir poco impossibile. Così accade per Amir, che non si sa neanche se è il padre di Amidullà e di Abdullà, un presunto zio. Insomma, nessun documento, anagrafe zero e l’ultimo censimento risale alla fine degli anni ’70 e fu fatto dai russi. Ma torniamo ad Hamidullà. È arrivato in infermeria qualche mese fa con un piede ferito. Aveva una pietra conficcata nella pianta destra. La ferita ha fatto infezione e se non fosse stato per l’intervento dei medici militari italiani, ora non ne staremmo a parlare. Ogni tanto Hamidullà viene con il padre a farsi medicare la ferita che pian piano guarirà. Resta un altro problema, quello della schiena, dove è stata riscontrata una massa tumorale. Non si sa di che entità. Occorre un intervento medico in Italia, e il reggimento dei Lagunari “Serenissima” sta facendo il tutto per agevolare le lunghe pratiche burocratiche italiane ed europee. Oggi, con la consegna dei documenti, è stato raggiunto un primo obiettivo. Nei prossimi mesi, l’arrivo in Italia, in un ospedale di Verona. Saremo lì a fare il tifo per lui. A fare il tifo per la vita, in Afghanistan.

Mirko Polisano

lunedì 10 gennaio 2011

AFGHANISTAN, DA FARAH A BALA BALUK


Farah – 26.12.2010


Le prime luci dell’alba riscaldano la fredda notte di Farah. Qui, l’escursione termica è notevole: si passa dai venticinque gradi della mattina ai meno due della sera. Ci svegliamo, pronti a partire. Destinazione: Bala Baluk, nella F.O.B. (Farward Operating Base) una delle basi più avanzate del dispositivo militare impiegato in Afghanistan. Dalla torretta alfa, si vede ad occhio nudo la “Farahroad” piuttosto che il confine con il Gulinstan, altra terra calda, dove sono a lavoro i nostri soldati. L’avamposto di Bala Baluk è di quelli più a rischio. Lo stato di allerta è alto e può capitare di essere colpiti dai razzi degli insurgents, dei ribelli. L’ultima volta, il primo dicembre scorso. Il viaggio è lungo e tortuoso e per problemi di sicurezza non possiamo percorre l’asfalto della “517”, la strada della morte, come la chiamano da queste parti, ma siamo costretti a intraprendere una via alternativa, quella delle montagne, del deserto, degli avvallamenti e dei sentieri improbabili. Saliamo a bordo di un lince, Carmine, trentenne dei Bersaglieri, è il capo-pattuglia. Gentile e disponibile, ci fa da guida nel deserto afghano, fatto di villaggi, di bambini che ti circondano per una caramella, di paesaggi da presepe e di sospetti. Già perché qui, l’attenzione non è mai troppa ed ecco che per una la motocicletta che ci segue, si attivano i primi dispositivi, poi è il turno di una macchia dubbia sul terreno. È un vulneral point. Bisogna controllare. Dopo circa sei ore di viaggio, imbocchiamo la strada asfaltata fatta dagli americani. Che l’abbiamo realizzata loro, lo supponiamo, ne abbiamo la certezza quando alla nostra destra scorgiamo un autogrill e un punto di rifornimento carburante. Quasi che la globalizzazione sia arrivata fin qui. Un primo approccio di occidentalizzare l’Afghanistan. Forse i precedenti del Kosovo non sono poi tanto lontani. Chissà se tra dieci anni anche l’Afghanistan chiederà di entrare in Europa. Battute a parte, c’è ben poco da scherzare. Superato il ponte che porta a Bala Baluk occorre spegnere i fari. L’oscuramento è una prerogativa delle basi dell’Afghanistan. Succede a Herat, a Farah e ora anche qui a Bala Baluk. Entriamo e ad accoglierci, c’è Giuseppe, un Sergente Maggiore di Castellammare di Stabia che ci mostra gli alloggi, ci presenta il comandante di battaglione, Luigi Puce. Scambio di battute e poi a tavola. Per le dimensioni e il clima familiare, sembra essere in un’osteria italiana. E anche il cibo è buono: spaghetti aglio olio e peperoncino sono lontani anni luce dalle aragoste natalizie di Herat, ma il sapore è davvero unico.

Mirko Polisano

domenica 9 gennaio 2011

AFGHANISTAN, SPALLA A SPALLA

Farah – 25.12.2010

Un Natale che non dimenticheranno facilmente, i soldati del contingente italiano, che lavorano a Farah, città a sud di Herat in Afghanistan. Non lo dimenticheranno per tanti motivi. Il primo, quello nostalgico, dove i sentimenti prevalgono su tutto, pensando alle proprie famiglie lontane; il secondo per una bella sorpresa avvenuta stamattina nell’aeroporto di Farah. Blitz del generale dell’esercito americano, David Petraeus, attuale comandante delle operazioni statunitensi militari in Afghanistan.

“P for”, come lo chiamano i suoi uomini, e come si firma lui, è sbarcato da un C 130 americano per volare su un EH 101 della Marina Militare italiana che lo avrebbe accompagnato a Bakwa. Un “touch and go” veloce, giusto il tempo per passare in rassegna i suoi uomini e quelli italiani, agli ordini del colonnello dei Lagunari Giovanni Parmiggiani, comandante della Task Force di Farah. Stretta di mano ad ognuno e scambio di auguri: “merry christmas” agli americani, buon natale ai nostri. Prima di andare via, il saluto del comandante Parmiggiani, che ha donato a Petraeus il crest del Reggimento dei Lagunari “Serenissima”, ricevendo dal generale la promessa di esporlo con orgoglio nel proprio ufficio. Incontriamo il generale Petraeus. Come è la situazione dei militari italiani in Afghanistan? “Le forze armate italiane stanno facendo un ottimo lavoro qui in Afghanistan. Si occupano dell’area ovest del Paese, controllando Herat e altre realtà difficili come Bala Murghab, per esempio. Il buon operato consentirà di acquisire in un prossimo futuro maggiori poteri e maggiore spazio nell’ambito della missione Isaf”. Come sono i rapporti tra l’esercito americano e quello italiano? “Siamo amici. C’è stima e rispetto reciproco. E’ un’ottima collaborazione. Lavoriamo “shoulder by shoulder”, spalla a spalla, (traduciamo un’espressione comune anche da noi)…e poi l’Italia è nel mio cuore, visto che uno dei miei primi incarichi l’ho svolto proprio a Vicenza…bei ricordi”. Il saluto del comandante Parmiggiani lo accompagna a bordo dell’elicottero della Marina Militare…il sorriso di un caporal maggiore dell’Esercito ci riempie la giornata.

Anche lui ha avuto il suo regalo di Natale…


Mirko Polisano

AFGHANISTAN, ARRIVO A CAMP ARENA

Herat - 23.12.2010

Il viaggio è lungo. Ci impieghiamo quasi due giorni da Roma-Fiumicino ad arrivare ad Herat, dove c’è la base “Camp Arena”, il quartier generale del Regional Command West, la cui leadership è affidata al contingente italiano e da cui dipendono circa 7600 uomini tra italiani, americani, albanesi, lituani, croati e spagnoli. È tutto pronto per la visita di domani del Presidente Schifani. E anche noi siamo pronti a seguirla. L’aereo presidenziale atterra nelle prime ore della mattina di questa vigilia di Natale, che tutto sa tranne di cenoni a base di pesce, fritture romane e preparativi di regali da scartare. Si respira un clima di attesa. Attesa per ciò che dirà il Presidente. Attesa perché in molti non vedono l’ora che queste feste passino in fretta. Vadano via. Perché tutto a Natale è più amplificato. Anche la nostalgia. Quella per la casa, per la propria famiglia. Ma chi è abituato ad andare in missione questo lo sa. E lo sanno quanti schierati in fila, sono pronti ad ascoltare. È lo stesso Schifani a parlare dell’Afghanistan, dove si sta compiendo un’operazione senza precedenti. “Abbiamo pagato un prezzo altissimo, in termini di vite umane- dice- un dolore che l’Italia non dimenticherà mai, un sacrificio che sta contribuendo al consolidamento della sicurezza e della democrazia in Afghanistan. Siete il fiore all’occhiello del nostro Paese”. Ci fanno pensare queste parole, al di là del “fiore all’occhiello”. Ci fanno pensare quando si parla di caduti, di morti. E di dolore. Un dolore testimoniato da una discreta presenza: è la mamma del capitano Romani, il giovane ufficiale del Col Moschin che qui in Afghanistan è recentemente morto. Questa signora bionda e silenziosa è arrivata con Schifani per vedere dove il figlio ha vissuto i suoi ultimi momenti, per conoscerne i compagni, per respirare l’ “aria” della missione. Una missione difficile. Fatta soprattutto per ricostruire un paese ed assicurargli un futuro democratico. I soldati schierati al sole che illumina una calda giornata d'inverno ascoltano le parole del Presidente, incassano la gratitudine di Schifani mentre, a pochi passi dal piazzale, c’è qualcuno che pulisce i mezzi blindati ed armi, sempre pronti a intervenire. Oggi è Natale, è festa e c’è anche il panettone; ma la vita continua e il lavoro prosegue. Qui, ad Herat, regna ora una relativa tranquillità, dopo anni passati a schivare i razzi dei talebani insorti. Ma il pensiero di tutti è rivolto costantemente ai compagni impegnati negli avamposti lontani, nel Gulistan, a Bala Murghab, dove i nostri mortaisti, gli incursori, gli assaltatori, affrontano ogni giorno i grandi pericoli di un territorio ancora molto insicuro. Terminata la fase istituzionale, Schifani ha personalmente stretto la mano agli uomini e alle donne schierati nella piazza delle bandiere. Uno ad uno per congratularsi per la loro professionalità. Un breve pranzo in mensa e uno scambio di battute ai tavoli sono stati gli ulteriori momenti di una giornata intensa, anche di emozioni. Prima di partire a bordo dell’aereo presidenziale, la visita ai reparti e ai mezzi della componente area del nostro contingente, costituita da uomini e mezzi dell’ Aeronautica Militare, dell’Esercito e della Marina Militare. Un ultimo grazie, e poi in volo verso Roma. “E’ stato bello – racconta un alpino, un po’ commosso – è come se attraverso le telecamere di oggi, salutassimo i nostri cari in patria”. Siamo d’accordo con lui, così come con il presidente Schifani quando, in chiusura del suo intervento istituzionale, ha detto che non può esistere un discorso preparato in queste circostanze. Esiste, però, l’affetto e l’orgoglio di un popolo, quello italiano, che è con tutti voi…
Mirko Polisano

sabato 8 gennaio 2011

AFGHANISTAN, SI PARTE...

Già il nome è di quelli che toglie il sonno: Afghanistan. La notte la passi in dormiveglia a capire il perché della tua scelta. Non hai ripensamenti, è solo che fa riflettere il motivo per cui decidi di andare lì dove nessuno vuole andare, e chi c’è non vede l’ora di rientrare a casa. Ma sai che è il tuo lavoro e la voglia di raccontare, sapere, informare è per te una prerogativa a cui non puoi rinunciare. Ti vengono in mente le parole di altri cronisti, che si chiedono che ci faccio qui. Te lo chiederai anche tu, tante volte, nel corso dei prossimi giorni. Ripensi anche a chi sostiene che l’Afghanistan rappresenta oggi quello che per altri cronisti ha rappresentato il Vietnam, ieri. Ed è vero. Come sono vere le analogie tra paesi e conflitti. In primo luogo, sul campo: quando è ormai certo che quella che si sta combattendo è una guerra asimmetrica. Non ci sono due eserciti che si contrappongono con armi, uomini e mezzi. Ma ci sono eserciti che si contrappongono con armi, uomini e mezzi ad un nemico invisibile. Sia questo un kamikaze, un’auto-bomba, un ordigno improvvisato, che di improvvisato non ha proprio nulla, o forse, un cecchino. Non importa. Perché parti con la consapevolezza che in Afghanistan di sicuro non c’è niente. E allora credi che sia la pazzia ad animare le tue scelte. Si, quel pizzico di pazzia che è necessario per cercare di rendere migliore questo mondo. Non hai grandi pretese e parti con quel carico di speranze che le belle parole delle persone care ti lasciano nel cuore, prima di affrontare il viaggio. Tra queste quelle di Antonio: “ porta il tuo sorriso alle persone di quella terra affascinante quanto martoriata” oppure quelle di Emanuele: “siamo cresciuti insieme e tu stai coronando i tuoi sogni da bambino. Sono orgoglioso di te”. Stefano che prima dell’ultimo brindisi ti dice che non è da tutti avere dedicato un libro, riferendosi alla mia pubblicazione sul Kosovo. Angelo in un messaggio con Denise e Laky ti ribadisce che è contrario alla mia partenza, proprio come mamma. Luciano, invece, è sempre dalla tua parte: “so che non è facile lontano da casa…ma quando ti sentirai solo e stanco pensami, e io ti aiuterò. Un abbraccio forte, il tuo fratellone”. L’unica paura adesso è quella di deluderli. Non ci penso, provo a dormire…che domani si parte!

Mirko Polisano

UN DIARIO DEI GIORNI NOSTRI...

Non c’è viaggio, senza una destinazione e non c’è arrivo senza una partenza. Uno sguardo indietro, per capire da dove siamo partiti. Perché ogni tanto nella vita è bello sognare…
Per chi fa il mio lavoro, le frontiere non sono soltanto quelle fisiche. Quelle che delimitano il confine, quelle che circoscrivono un territorio. Ci sono anche quelle della comunicazione, che cambia secondo i tempi. Ed internet è sicuramente una nuova frontiera. E la frontiera adesso si trasforma in sfida. Per questo non deve mancare l'entusiasmo, come per ogni avventura che si intraprende. E' importante capire che nel mondo di oggi sono i mezzi che fanno la differenza. Ecco il perchè di un blog: che ti permette di credere in un'informazione libera...anche solo se devi rispondere unicamente alla tua coscienza...non è poco e la soddisfazione è tanta... che ti permette di accorciare le distanze, specie se i posti che giri sono lontani e non solo sulla cartina geografica. Sono lontani per mentalità, tradizioni, usi e costumi...e allora non deve mancare l'entusiasmo di prima per raccontarli agli altri, per condividere con chi ti ascolta la bellezza delle diversità.

Non bastano solo una penna e un foglio per raccontare. Servono occhi e orecchie pronti a nutrirsi e ad arricchirsi di nuovi mondi. Serve anche la bocca per chiedere perchè... e per non far mancare il tuo punto di vista. Queste pagine rappresentano un "diario dei giorni nostri". Dove trovi appunti, spunti di riflessione e...storie. Che arrivano dagli angoli più difficili di una terra arida di sentimenti. Ma non manca chi semina...e i figli che nasceranno...saranno i più bei frutti da raccogliere...

Mirko Polisano