domenica 16 gennaio 2011

AFGHANISTAN, RIENTRO A FARAH TRA CHECK POINT E VILLAGGI SPERDUTI...

Bala Baluk – 29.12.2010

La colonna è pronta a partire. L’Advance Combat Recognition Team, composto da un Buffalo e due Cougar, è già andato da poco più di un’ora. Ci fa da apripista. Il braccio meccanico e i robottini sono pronti ad individuare eventuali I.E.D., esplosivi non desiderati. Di quelli che ti fanno saltare in aria, senza neanche che te ne accorgi. Dopo la colazione in base, si parte alla volta di Farah, sempre a seguito del Reggimento Lagunari “Serenissima”. È ancora Carmine il mio caposcorta, il suo sguardo teso e attento non lascia trasparire la tensione di chi ha appena saputo che dovrà percorrere l’asfaltata 517, l’odiata 517, dove l’attentato è dietro l’angolo. Prima di salire sul lince, penso a questi ragazzi, a come svolgono il proprio lavoro: così difficile, così duro. Ai loro discorsi. Poi basta uno scherzo, una risata tra di loro e l’ansia è meno pressante. Imbocchiamo la “RingRoad”, chiamata così dagli americani, perché è la strada che gira intorno a tutto l’Afghanistan, la stessa che collega Farah ad Herat e Herat a Kabul. Alla nostra destra, qualche villaggio nella piana desertica. A sinistra le montagne, incastonate nel cielo e coperte da una nube di polvere. Attraversiamo i villaggi, uno ad uno. Il primo, sperduto senza neanche il nome. Poche case, diroccate. Un uomo con il suo turbante in testa e lo sguardo penetrante pascola con i suoi dromedari. Più in là una donna. Coperta. In un fiumiciattolo che sgorga acqua sporca lava una pentola di rame. Il suo atteggiamento è furtivo, schivo. Carmine mi spiega che alle donne non è permesso di farsi vedere in pubblico senza il marito, al massimo davanti alla propria casa. Lui, di donne in giro da sole e per giunta a volto scoperto ne avrà viste due in quattro anni di Afghanistan. I check point della polizia afghana scandiscono il tempo e il percorso. C’è apprensione, quando tagliamo a metà il villaggio di Shiwane. È una roccaforte dei ribelli. Dobbiamo anche fare una deviazione. Una voragine nell’asfalto ci fa capire che proprio qui all’inizio di dicembre c’è stato un attentato alla colonna italiana di ritorno da Bala Baluk. A morire però fu un militare afghano dell’A.n.a. C’è silenzio, quando si passa nel punto dove ha trovato la morte il caporal maggiore Di Lisio, dell’ ottavo reggimento Genio Guastatori. Poi il sorriso di un bambino che chiede una merendina ti riporta ad un’altra realtà. Quella della lotta alla miseria. Una miseria fatta di piedi scalzi, di fogne a cielo aperto, di dispersione scolastica, di ruote di biciclette bucate. Di uomini, sdraiati a bordo strada, che thè alla mano parlano senza fretta e senza affanno. È l’”afghan time”, come lo chiamano da queste parti, calma e serenità. I colori della frutta e delle spezie sono il biglietto da visita del mercato del centro di Farah. Gremito di persone. File di motociclette variopinte e profumi orientali sono i protagonisti di questo metà bazar metà casbah. Un punto di incontro. Il pane è attaccato alle pareti, le arance ben disposte nelle casse. Il via vai di ambulanti e acquirenti dà un po’ di caos alla vita tranquilla che sembra scorrere da queste parti. Usciamo, ma prima di entrare in base, un bambino ci guarda con gli occhi della speranza. Dalla ralla, arriva una busta di cornetti. Saluta la telecamera e partiamo. È contento. Noi, forse, più di lui.


Mirko Polisano

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