mercoledì 9 febbraio 2011

AFGHANISTAN, IN GIRO PER HERAT

Herat- 31.12.2010

“Khorasan è l’ostrica del mondo e Herat la sua perla”, recita così un vecchio proverbio riferendosi alla supremazia di questa città afghana nella regione che in epoca medioevale includeva gran parte dell’Iran e del Turkmenistan. Oggi, nel 2010, pardon, ormai nel 2011 non possiamo smentire questo antico adagio, dato che Herat, patria di poeti, studiosi, e filosofi si distingue tutt’ora come fulcro culturale del paese. Da Gengis Khan a Marco Polo, senza dimenticare gli altri invasori, in molti hanno cercato di sottometterla, ma Herat ne è sempre uscita a testa alta, puntando sulle sue bellezze e sui suoi abitanti, gentili e ospitali, come gran parte del popolo afghano. Nel briefing mattutino, la decisione che caratterizzerà la giornata di oggi. Usciamo. Da soli, senza la nostra scorta. Per conoscere questa città, capire i suoi cittadini: uomini, anziani, donne, che ci raccontano la loro vita. Chiamiamo Mir, un afghano di Herat, che ci fa da autista, da guida e da interprete. Daniel non vede l’ora e monta la macchina fotografica. Io, pronto a raccogliere le storie di questa gente. Per strada, come ho sempre fatto. È venerdì. Un giorno sacro per l’Islam. Ci avventuriamo nella Toyota bianca di Mir che parla solo inglese. Pensiamo di trovare strade deserte e saracinesche abbassate. Invece, è un brulicare di colori. Dal finestrino alla mia destra, è un continuo andirivieni di carretti sgargianti, motociclette, macchine improbabili, ragazzi che giocano a pallone, donne in burqua, e palazzi distrutti dalla guerra. Tocchiamo con mano, le meraviglie di questa terra. La “Big Moschea”, come la chiama Mir, è il santuario di Gazar Gah, uno dei luoghi più sacri di tutto l’Afghanistan. Qui incontriamo banchetti di venditori ambulanti, bancarelle di cappellini e libri religiosi, due ragazzi che su una panchina sorseggiano del thè, e poi una serie infinita di mutilati, diseredati che cercano soldi, aiuti. Non ci sono mai stato, ma sembrano le immagini che la televisione manda in onda quando si parla di Bombay ai tempi di Madre Teresa. È questa stessa immagine che vediamo nelle altre strade della città: sui marciapiedi, davanti ai negozi. Polvere, tappeti a terra e bisognosi. Il caos frenetico di una vera casbah ti porta a correre. Con Mir a nostro fianco ci avventuriamo tra i vicoli, tra i mercanti della città vecchia. È una fila interminabile di tende, arazzi, scarpe e bracciali dell’artigianato locale, ma anche di venditori di datteri, noci, pane fatto dai bambini e dolciumi lavorati a mano. Vogliamo comprare tante cose, ma il tempo è tiranno e poi con l’euro si fa poco da queste parti. Altra sosta ai minareti di Musalla, Mir ce li mostra e scherza con noi dicendo che li ha costruiti il progettista della torre di Pisa, perché pendono da un lato. Arguto. Anche se la realtà è diversa: i cinque minareti risultato particolarmente malinconici, baciati dall’ombra del sole. La strada che li collega favorisce il traffico e le vibrazioni prodotte dai veicoli di passaggio danneggiano le fragili fondamenta, rese già fragili dalla guerra. Usciamo dal sito e troviamo una brutta sorpresa: a Mir hanno rigato la macchina. Non lo diciamo, ma lo pensiamo, che forse è colpa nostra perché ha fatto da guida e da interprete a dei reporter occidentali. Per le vie della città intanto si sente il grido di preghiera. Entriamo nel complesso millenario della cittadella. Oltre tremila anni di storia ci passano davanti. È quasi ora di pranzo. Abbiamo fame e chiediamo a Mir dove possiamo andare a mangiare qualcosa di tipico. Ci porta in un ristorantino del centro. Mangiamo all’aperto sotto il sole, sui tappeti e senza scarpe, come è abitudine da queste parti. Riso, montone e tutti piatti tradizionali della cultura gastronomica afghana. Accanto a noi, il proprietario. È inevitabile scambiare con lui due parole. Proprio come facciamo a Roma, quando, ad ora tarda e a tavoli sparecchiati, con il ristoratore ci fermiamo a parlare di vino e cacciagione. Non sappiamo come si chiama, perché per tutti è l’”Ingegnere”. Così, mi racconta la sua storia. E’ laureato in ingegneria edile, è un tagiki e gestisce questo grazioso ristorante che accoglie una ventina di persone a pranzo e altrettante a cena. “Sono sempre aperto- spiega- anche nei giorni festivi, non posso permettermi di non lavorare”. Gli chiediamo dell’Afghanistan, mi risponde con una percentuale il 98% della popolazione è povera, il 2% benestante, “al contrario dell’Italia- afferma- dove i dati sono al contrario”. Ribattiamo con un “so e so”, così e così e ci scherziamo su. Poi mi racconta del 1982, dell’invasione russa. Che era una guerriglia continua e che si doveva scappare dai villaggi alla città. Così l’arrivo a Herat. E gli chiediamo perché non fa l’ingegnere. “Qui non c’è bisogno di ingegneri. I progetti vengono valutati dagli internazionali ed eccomi qui a cucinare riso e pollo”. Ci parla dei rapporti con l’esercito italiano, di Isaf e che è necessario rimanere in Afghanistan per il bene del paese. E sul domani? “Impossibile pensarci. L’Afghanistan non ha una prospettiva futura. Forse solo un barlume di speranza e basta”. Rientriamo sulla via di casa, della base, pardon. Al benzinaio, troviamo un sedicenne in moto. Lo intervistiamo. “La motocicletta è la mia passione- dice in un perfetto inglese- l’ho comprata nuova”. Anche lui non ha progetti futuri e non solo come l’”Ingegnere”, ma come tutti i ragazzi della sua età. Come tutto il suo popolo. Ma ha il sorriso sulle labbra. Quel sorriso, che a noi viene meno quando arriviamo in base. In Gulistan, dove dovevamo essere oggi, c’è stato un conflitto a fuoco. È morto un ragazzo. Uno dei nostri. Speriamo che questo 2010 vada via in fretta.

Mirko Polisano

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