mercoledì 9 febbraio 2011

AFGHANISTAN, ARRIVEDERCI...

Raccontare l’Afghanistan non è semplice. È la storia di un paese bello quanto devastato, dalla povertà, dalla guerra, dall’ignoranza e dalla prepotenza. L’ultimo giorno lo passiamo di nuovo in centro ad Herat. Visitiamo la Mosche del Venerdì, uno dei più importanti luoghi di culto di tutto il mondo islamico. Incontriamo gli studenti, gli anziani, le donne, che pregano. Gli operai che lavorano. Qui c’è la produzione delle maioliche utilizzate per la realizzazione di quasi tutte le moschee del mondo. Parliamo con il maestro, è un saggio con la barba bianca e lunga. Ci affascina già soltanto il suo aspetto. Mi dice del lavoro, della vita dura e difficile qui in Afghanistan. Ha visto i russi e gli americani, è sopravvissuto al regime dei talebani e ascoltare le sue storie è come leggere un bel libro. Usciamo fuori, e la percezione della realtà cambia. Un paese che comunque ti resta del cuore. Come ti resta nel cuore la sua gente. Ha ragione Daniel quando dice che l’Afghanistan è un qualcosa di cui non puoi fare a meno. Perché forse davvero basta la tua presenza per aiutare chi ha bisogno, sia questo uzbeko, dari, pasthun. Andiamo via, lasciando qualcosa in sospeso. Come se quel poco che abbiamo fatto, che sia solo raccontare le difficoltà di una terra e l’operato di quanti qui lavorano, non sia sufficiente. Di questo viaggio porteremo con noi tante piccole cose che fanno grandi gli uomini. La paura e il destino, perché l’una non deve mancare e l’altro ci deve assistere. E così ripensiamo a quel razzo che non è partito in una fredda notte di fine dicembre, a quel viaggio rimandato… lì nella terra di nessuno, a quel kamikaze saltato non lontano da noi, a quell’ordigno esploso poco dopo il nostro rientro in base. Pensi e ti chiedi perché. E ognuno trova le sue risposte. Ogni volta che fai la valigia, è sempre tempo di bilanci. E a questi aggiungi dell’altro. Il senso di umanità, di dignità, di riscatto di un popolo che non vuole padroni e che vuole vivere secondo i suoi ritmi e i suoi tempi. Sempre fedele a non tradire l’antico valore dell’ospitalità. Torniamo a casa con la barba più lunga e con un po’ di raffreddore, preso tra tende ed elicotteri, e ci vengono in mente gli insignificanti episodi di questa esperienza. All’inizio non gli dai peso, ma quando stai per concludere il tuo viaggio, ci ripensi e resti con un sorriso sulle labbra. Le domande di Daniel sugli orari, i nomi e i gradi…che mi sembra essere ritornato per un attimo al mio quotidiano lavoro di ufficio stampa, al racconto di Vincenzo che parla di suo figlio, alle mille avventure di Antonello in giro per il mondo, ad Anna sempre in ritardo e a Milla che si aggira per la base con un sorriso gentile per tutti. C’è anche Maria Clara, ogni volta che la sera a mensa mangio la frutta. L’aereo parte per Roma. L’adesso è già passato, e già pensi al prossimo viaggio. Ti guardi indietro e c’è il volto di chi hai lasciato: Hamidullah e il suo piede ferito, l’ingegnere del ristorante e i suoi racconti da ex combattente, Mir che ti porta in giro per la città, e si. C’è anche Matteo. A lui ci pensi, spesso in questi giorni…e ti chiedi perché.

Mirko Polisano

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