La memoria non può essere solo
quella di oggi. Deve essere quella di sempre e quella di tutti. Non dico di
fossilizzarsi, ma di riflettere quando si può. Ho sempre provato un certo
fastidio per i luoghi comuni e per gli eventi spot. Come la beneficenza a
Natale o come la festa della donna. E non possiamo permettere che giornate come
quella di oggi rischino di avere lo stesso percorso. Perché così diventa una
memoria fine a se stessa fatta di Schinderl’s List e di Anna Frank:
indispensabili capolavori, ma che non possono essere esclusiva metafora del
male assoluto. Essere ad Auschwitz e Birkenau proprio il 27 gennaio è uno dei
regali che ho ricevuto da questo lavoro. È lì che ho incontrato Petro
Mischtschuk, sopravvissuto ucraino scampato alla follia del campo di
concentramento. Mi lasciò un biglietto scritto in cirillico, che ancora
conservo. Voleva che continuassimo a fotografare, a riprendere…a raccontare.
Per molti, oggi, la paura più grande sembra essere proprio questa: che la
memoria si tronchi. In tanti chiedono di cosa sarà quando andranno via anche
gli ultimi testimoni. Se esiste questa
paura è perché, forse, già sappiamo la risposta. L’avremmo dovuta già imparare
da Nabucodonosor con le sue deportazioni degli ebrei nelle terre babilonesi, l’avremmo
dovuta imparare già da Alessandro Magno che vietò lo Shabbat, i sacrifici al
tempio e proibì la diffusione dei libri sacri. L’avremmo dovuta già imparare
dall’imperatore Claudio che cacciò gli ebrei da Roma e l’avremmo dovuta già
imparare anche da Tito che bruciò il tempio a Gerusalemme e per segnare il
trionfo fece innalzare quell’arco che porta il suo nome e che ancora è lì,
accanto al Colosseo. Se è così, non vorrei che la storia sia maestra di vita. Perché
forse Auschwitz c’è sempre stata e rivive ogni volta che è la volta di un
genocidio, di una discriminazione, di un pregiudizio. Auschwitz rivive a Srebenica
nei Balcani. Auschwitz rivive a Meje in Kosovo. Auschwitz rivive nelle teste di
maiale davanti alla Sinagoga. Auschwitz rivive ogni volta che sentiamo parlare
di “tutti questi zingari”, “di tutti questi negri” e “di tutti questi ebrei”. E’ quella la
più bassa percezione del razzismo che incontriamo al bar, in treno, e anche in
certi politici. E purtroppo non ci indigna come dovrebbe. Questa è anche la
storia di una classe di bambini di terza elementare e di una maestra che per rispetto
nei confronti di un nostro compagno ebreo ci fece provare la merenda con il pane azzimo. Oggi poteva finire su qualche
giornale, e invece ci ha formato come uomini migliori. Ed è stata, per noi, la
più importante lezione di storia.
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