martedì 24 giugno 2014

BRASILE 2014, L'ITALIA PER CUI TIFIAMO

Ci sono cuori che battono ovunque. Al di là dei confini e oltre le frontiere. È il cuore di un’altra Italia che, con lo stesso entusiasmo e un pizzico di nostalgia in più, fa il tifo per gli azzurri pronti a scendere in campo, tra poche ore, contro l’Uruguay.  È un’attesa fatta di speranze e emozioni quella dei nostri connazionali all’estero. Giovani, laureati e con la voglia di realizzarsi in un lavoro che nel Belpaese, da Roma a Milano, continua a non esserci. Sono psicologi, medici, giornalisti, archeologi il volto di quest’Italia che vive oltre il Passo del Brennero, e che è costretta a trascinarsi l’etichetta di spaghetti, mandolino e di pizza margherita. Superati anche gli stereotipi di “Little Italy”, grazie al sogno di un’Europa unita, sono comunque tante le presenze italiane in Inghilterra, Irlanda, Francia e Germania. Il sentirsi italiano, da queste parti, è un valore aggiunto e una marcia in più. Nel nome del pallone e nel segno di Balotelli, l’Italia del football si ritrova a casa o nei pub di Londra e Dublino. Ma anche per le strade di Berlino e nei vicoli di Parigi, sotto un unico tricolore che, almeno per questa volta, abbatte ogni barriera.

Carmen Cretoso giornalista "europea" in Francia
QUI PARIGI.  Carmen Cretoso è partita da Pompei alla volta della Francia. Ha 30 anni e tifa Napoli. “Al sud il lavoro non c’è – racconta – allora dobbiamo inventarcelo. Anche i sogni costano e così ho deciso di lasciare la mia città, la famiglia e gli amici per partecipare ad un progetto con il parlamento europeo”. Ha seguito le recenti elezioni amministrative di Parigi e ha una passione per Insigne e Immobile, ma quando scendono in campo gli azzurri, il tifo è per tutti. “Mi riunisco a casa – spiega- con altri amici e il rito scaramantico è quello di preparare le lasagne. I coinquilini stranieri si aggiungono lo stesso anche se non tifano Italia e alla fine ci ritroviamo tutti a tavola”. Alcuni bambini con cui lavora nelle scuole, le hanno disegnato sul volto la bandiera dell’Italia e poi anche quella della Francia: “così se vince l’Italia o vince la Francia – le hanno detto- nessuno ci rimane male”. 

Tifosi italiani a Berlino 
QUI BERLINO. Giuseppe da diverso tempo vive a Berlino. È un appassionato di calcio e per le strade della capitale tedesca ha riunito i tanti italiani per seguire insieme le partite della nazionale. Qui, è dove l’Italia ha vinto il suo ultimo mondiale, ma è anche il paese che ha mandato in onda un recente spot pubblicitario che ironizza sulla figura di noi italiani. “Berlino è una delle città in Europa con la comunità italiana più vasta- fa sapere Giuseppe-  quando arrivano i mondiali, da buoni italiani, partiamo in sordina. E come potrebbe essere altrimenti, con le maree di bandiere, sciarpe, canti a colori giallo rosso e nero. I tedeschi sono dei veri coreografi quando si tratta di eventi come questo. Posso davvero fare scuola. Ogni locale, ogni angolo della città, ogni auto, palazzo e bar è tinteggiato coi colori della nazionale teutonica. Giovani, anziani, donne, bambini, quando gioca la Germania sono tutti uniti a tifare insieme. Noi italiani abbiamo i nostri santuari, ci riuniamo, ci facciamo sentire. Due anni fa fu così e, arrivati in semifinale con i tedeschi, poi eliminati come al solito, siamo esplosi, a nostro rischio e pericolo. Ma poi i tedeschi, si sa, sono sportivi, ci bevono su e dimenticano presto”. 

Italia-Inghilterra a Londra
QUI LONDRA. Livia è arrivata in Inghilterra per imparare la lingua e per cercare lavoro, come tanti italiani da queste parti. “La partita d’esordio – ci dice- ha vissuto un’attesa con il pathos alle stelle per noi italiani a Londra. Gli inglesi sono molto nazionalisti e soprattutto non ci vedono di buon occhio. Per le strade della città di italiani non se ne vedono. Qui, il punto di ritrovo resta il pub dove, in compagnia di buona birra, siamo pronti a seguire le gesta di Balotelli e compagni". Anche a Dublino, il pub diventa Casa Italia: “Da queste parti – racconta Antonio, da due anni in Irlanda- il tifo è tutto per noi. Gli irlandesi sono dalla nostra parte, specie da quando abbiamo sconfitto l’Inghilterra". Belfast resta ancora un nervo scoperto. 



L'Italia in gol. Visto dal Kosovo
QUI AFGHANISTAN. Poi, c’è un’altra Italia. Quella del senso del dovere, quella che non conosce interruzione né domenicale, né festiva. Quella che scende in campo ogni giorno in posti difficili come l’Afghanistan, il Libano o il Kosovo. Nella base di Camp Arena, l’atmosfera si fa più coinvolgente e i punti ristoro hanno i maxi schermi sintonizzati sugli stadi del Brasile. Così come a Pristina o a Shama nel Libano del sud. “Quando partono le note dell’inno nazionale- spiegano dal contingente italiano- la sensazione è fatta di brividi e commozione. L’inno di Mameli noi lo cantiamo ogni giorno, quando iniziamo la giornata ed è l’icona dell’unione del popolo italiano e della vicinanza, ovunque ci si trovi”. Dopo la partita contro l’Inghilterra, le strade di Tyro sono state invase da caroselli di libanesi che sventolavano il tricolore. “E’ stata la nostra vittoria più bella”, fanno sapere i militari italiani dalla base Onu.    



Mirko Polisano

giovedì 1 maggio 2014

ASANTE SANA, AFRICA! IL PAESE CHE TI TOGLIE IL RESPIRO...


Quando arrivi ad Addis Abeba ti manca il fiato. Il sole è forte, anche se è sorto da poche ore. L’altitudine ti dà questa sensazione di asfissia, anche se con la mente pensi possa essere il paesaggio, la città, l’Africa. L’Etiopia è ancora un paese che parla italiano, dove il traffico è peggio di quello di Roma e dove il caffè è davvero buono. Per le strade della capitale, ancora puoi incontrare i figli della guerra e della povertà. Come quei bambini che si nascondono allo stadio perché essere orfani e soli qui è un reato. La legge è rigida e severa. Le donne hanno un fascino che ti travolge e le pene sono inasprite anche per gli italiani amanti del turismo sessuale che ora rischiano il carcere se scappano in caso di gravidanza. Viaggiamo su mezzi strani e improbabili: un bus affollato e carico di umanità, un ape attrezzato a taxi. Qui li chiamano “banjangi” e con pochi euro ti portano ovunque: dai sentieri non asfaltati alle sterminate distese di sabbia rossa. Anche l’aereo non è di quelli sicuri. Sembra il charter dei film di Pozzetto e Villaggio, manca solo il lavavetri che compare mentre sei in volo. D’altronde, la stagione delle piogge non è ancora conclusa e i temporali sono intensi ma brevi. Ci spostiamo a Dar es Salaam, capitale della Tanzania. Anche qui il traffico ti accoglie e come in una veloce sequenza ti appaiono al finestrino venditori di tutto: banane, arance, patate, palloni, dvd e perfino coltelli e bastoni. Di notte, le strade sono presidiate da militari e guardie armate: la sicurezza è un serio problema, soprattutto se sei bianco. Arriviamo nel periodo della Pasqua e della festa nazionale, che proprio quest’anno fa celebrare alla Tanzania i suoi primi cinquant’anni di unità. Il nazionalismo è molto sentito: in tv, tutti guardano la cerimonia ufficiale e il silenzio nei locali ti colpisce. Così come nelle scuole, dove i bambini prima di entrare in classe cantano l’inno e omaggiano la bandiera. La religione è l’altro perno di questa società. Islamici e cattolici vivono nel rispetto reciproco. Nel giorno di Pasqua, viaggiamo per le città del sud, al confine con il Mozambico, e siamo trascinati in balli popolari e coinvolgenti per la festa più importante del mondo cristiano. In alcuni hotel, invece, sono rigide le pratiche musulmane, soprattutto quelle del divieto di consumare alcool e di dormire insieme per le coppie non sposate. La differenza la noti solo nei nomi: i biblici Moses, Ellen e Natalia sono di estrazione cattolica, Mohamed e Abduramein, di facile intuizione. Nei villaggi, il football resta l’amore della vita. Non importa di quale squadra, l’importante è indossare una maglia da calcio. Messi e Torres sono i beniamini di sempre e Arsenal, Chelsea e Barcellona vivono il loro sogno della Champions League. E le partite di pallone si giocano con una palla fatta di buste di plastica e con uno scarpino alternato nella migliore delle ipotesi ad una ciabatta oppure se proprio va male, ad un piede scalzo.  Hassan è un insegnante di storia. Vorrebbe lavorare all’università il prossimo anno, ma per ora si accontenta delle elementari. “Ho scelto queste classi – mi racconta – perché i più piccoli non parlano l’inglese e io posso insegnarglielo. La bellezza è nelle fondamenta e questi bambini sono le basi di questa società”. Qui andare a scuola, è ancora un privilegio. Può permetterselo solo chi ha una divisa. Di notte, una sera arriva Addara. È stato uno dei primi ad avvicinarsi a Carla per chiedere di studiare. Lei gli regala la divisa per frequentare la primary school. Ha preso la licenza: oggi è un insegnante. Già Carla. Lei, romana di Centocelle, che in questa terra ritrova ogni volta se stessa. Con l’associazione Silenas, qui porta alimenti e medicine. “La cosa bella – mi racconta un giorno – è che quando porto un po’ di riso, fagioli o ugari loro sanno che devono dividere tutto”. Il suo impegno oggi è per costruire una casa famiglia per 40 bambini abbandonati e un punto di primo soccorso perché qui le donne ancora partoriscono per strada e la malaria è sempre un’emergenza. Questa resta una terra contesa. Il pericoloso Mozambico lascia alla porta volontari e reporter: è troppo pericoloso per entrare. Il paesaggio è indimenticabile e i baobab segnano i punti di congiunzione di questo continente, come in una settimana enigmistica dove devi collegare l’uno con i successivi per tirare fuori la vera immagine. Il Terzo Mondo è questo e non è, poi, così lontano. Come non sono lontane e sconosciute le scene dei bambini con le mosche sul naso o la pancia gonfia. Anche l’Aids resta un tabù e chi contrae la malattia è costretto ad indossare un segno giallo che dice: “io ho l’aiz”. Si perché la malattia passa ancora per il contagio da contatto, e questo stereotipo è difficile da combattere. Intanto, russi, cinesi e arabi hanno trasportato qui i loro interessi: il Burundi, per esempio, a due passi da qui, sulle riviste specializzate è già sponsorizzato come sito per importanti investitori stranieri. Il ponte che collega la Tanzania al Mozambico è ormai ultimato e la storia del gas è sempre una plausibile giustificazione a tutte le guerre. Io, ritorno in Italia. Altro paese difficile e lascio qui il mio “saluto bianco”, come diceva Sèdar Senghor, poeta senegalese ideatore della Negritudine. Quel saluto che va “al di sopra dei reticolati”.


Dell’odio e dell’idiozia. 



Mirko Polisano

Una carezza dall'Africa

domenica 6 aprile 2014

L'AQUILA, IL RICORDO E' UN MODO DI INCONTRARSI

Kierkegaard sosteneva che ci vuole più coraggio per dimenticare che per ricordare. Ma per questa storia tutta italiana ci vuole coraggio anche per ricordare. Perché se sono passati cinque anni e troppo poco è stato fatto finora, allora subentra un altro sentimento: la vergogna. Anche cinque anni fa era una notte di domenica e a quest’ora L’Aquila era ricordata più per ospitare le spoglie di Celestino V che per le macerie che di lì a poco sarebbero arrivate. Come la scena finale di un film in cui un’esplosione crea il nulla intorno. Nietzsche chiamava cattivo chi aveva lo scopo di incutere la vergogna. Se così fosse, cattiva è la politica: quella delle mazzette e della corruzione, quella che non ha saputo gestire l’emergenza, quella che ha creato ghetti e alienato persone; quella che richiama i grandi nomi, siano questi architetti per un auditorium o capi di stato pronti a farsi fotografare tra le macerie con il caschetto giallo in testa. La madre dei “presidenti operai” è sempre incinta. È questa la vergogna a L’Aquila, cinque anni dopo. E’ in queste occasioni che sono convinto che l’Italia assomiglia ad un tandem: per una parte del paese che non pedala, ce n’è un’altra che va più forte. È quella degli aquilani che nel giro di pochi mesi hanno ripreso in mano la propria vita: persone come Maurizio che sotto il forte spagnolo ha riaperto il suo nuovo chalet e lo ha chiamato la “Fenice” proprio perché come la leggenda dell’uccello mitologico che rinasce dalle proprie ceneri; oppure come Leò il primo bar aperto a L’Aquila dopo il sisma; o ancora come le sorelle Nurzia che non hanno mai smesso di lavorare il torrone. Marzia che sul muro del suo locale ha una scritta che ti colpisce: “non so che succederà…ma noi ce la faremo”. La dignità di chi vive ancora nei moduli abitativi, nelle finte case già arredate e volute dal governo Berlusconi; di chi chiede verità per la Casa dello Studente e di chi porta ancora quella sana rabbia nel vedere palazzi, chiese e monumenti imprigionati dai ponteggi. È questo il coraggio a L’Aquila, cinque anni dopo. Ogni volta che torno a L’Aquila è un tuffo nel passato e, allo stesso tempo, è una nuova scoperta. Ricordo Coppito e Onna, nella mia prima missione da “embedded” e la tensione che ancora si respirava pochi giorni dopo la scossa. Ricordo l’entusiasmo durante il G8,  le straordinarie misure di sicurezza e quei cartelli “Yes we camp” che facevano il verso allo slogan di Obama…per poi apprendere che gli unici a non mantenere le promesse sono stati proprio gli Stati Uniti d’America. Ricordo il rumore dei passi dei soldati nella zona rossa e quelle frasi su un muro che è diventato una bacheca da tutto il mondo: “L’Aquila, no disaster for ever. God bless you!”. Il dio è quello di tutti. L’Aquila è la città di tutti.

Di tutti gli italiani che fanno dimenticare la vergogna e ricordare il coraggio. 


Onna, Aprile 2009

Coppito, Aprile 2009
A L'Aquila, Aprile 2009




mercoledì 19 marzo 2014

AFGHANISTAN, LE SPERANZE AFFIDATE ALLE PREGHIERE NELLA CAPPELLA DI HERAT

Sogni, speranze e preghiere per il presente e per il futuro. La piccola cappella di Camp Arena in Afghanistan è una mano tesa verso il cielo, dove i soldati italiani lasciano ricordi, pensieri e anche preoccupazioni. Nel dicembre scorso, il parroco Don Marco ha sistemato all’ingresso della piccola chiesetta un libro che raccoglie le sensazioni e le emozioni che appartengono agli uomini prima che ai militari. Non c’è differenza di ordine e grado, davanti al Signore tutti sono uguali. C’è Massimo che scrive al figlio Silvio per il suo primo compleanno, oppure Ale che ogni giorno lascia una dedica al suo papà che non c’è più. Qualcuno
tutte le mattine inizia con un messaggio di fratellanza: “Buongiorno Famiglia!” e non manca chi alla famiglia in Italia ci pensa sempre. Stefano, invece, prega per tutti i bambini del mondo che “non c’entrano nulla con queste atrocità”, mentre qualcun altro si augura che non attacchino la Siria e che si possa tornare tutti a casa “sani e salvi”. È la casa, il leit motiv ricorrente. Qui ad Herat un po’ tutti sognano di riabbracciare i propri figli, le proprie mogli e i propri genitori. Cosimo è contento: “dopo 180 giorni, lascio questo posto!”; Roberto ringrazia: “per avermi sorretto in questi lunghi mesi”. Qualcuno esclama semplicemente: “E’ finita!” e in queste due parole c’è tutta la gioia di chi sa di avercela fatta. Come un altro soldato: “domani finalmente si torna!”, oppure chi ringrazia il Signore per averlo “sostenuto in questi lunghi mesi”. Anche un caporale esprime la sua felicità: “è l’ultima sera in Afghanistan. Grazie per essere stato al mio fianco”. Lino chiede di “renderci uomini” e qualcun altro gli fa l’eco: “che possano esistere degli uomini meno finti”. C’è chi prega per la propria isola e il pensiero corre alla Sardegna e alle genti colpite dall’alluvione dello scorso novembre. Don Marco risponde anche lui ai pensieri dei soldati e porta il suo conforto. Le pagine vanno via, una dietro l’altra e parlano di pace, fiducia e desideri per il nuovo anno. Ma in questa terra in cui il futuro è ancora visto come punto interrogativo non si può che essere proiettati anche nel presente. Qui dove, come ha scritto l’ultimo militare in fondo al diario, “un altro giorno” è davvero...“un altro regalo”.



lunedì 10 febbraio 2014

GIORNO DEL RICORDO, L’ESODO E LA DIGNITA’.



Quella di Claudio è la storia di tanti come lui. Oltre 300 mila italiani hanno vissuto l’incubo dell’esodo e la tragedia, ancora più grave, delle foibe. Claudio Smareglia ha 66 anni ed è nato a Pola. Il papà Giulio era un insegnante di lettere e filosofia a liceo ed era anche il proprietario dell’unica libreria della città. Il suo racconto è di quelli che tante volte, facendo questo lavoro capita di incontrare, purtroppo. Quando è l’umanità ad oltrepassare il confine dei sentimenti, dove il rancore diventa intolleranza e l’intolleranza diventa odio. Sulla cartina, il confine è quello italiano. Quella sottile e tremula linea che segna il passo dalla Jugoslavia di Tito. Claudio, all’epoca, era un bambino. Ma i suoi ricordi sono limpidi come quelli di sua mamma che di anni ne ha 94 e la sua memoria è testimonianza delle generazioni presenti. “La mia famiglia è istriana dal 1649 – racconta con voce ferma e decisa Claudio- e dopo 500 anni aveva tutti i diritti di rimanere lì, invece noi siamo stati completamente estirpati. Papà, essendo italiano, era considerata persone sgradita: è stato subito incarcerato come nemico del popolo slavo. Non ha mai fatto mistero della sua italianità – prosegue Claudio – e del suo voler rimanere italiano. Come ha scelto la nazionalità italiana lo hanno tirato fuori dal carcere, a me e mia mamma ci hanno preso come eravamo vestiti, senza prendere nulla, e ci hanno portato sulla Rabuiese, dalle parti di Trieste”. Da qui inizia l’esodo della famiglia Smareglia. “Siamo andati a finire a Grado – mi spiega Claudio, oggi pilota dell’Alitalia in pensione – dal fratello di mio padre. Il momento era bruttissimo con la famiglia che si era divisa. Papà era andato ad insegnare a Mestre e noi siamo andati al Silos di Trieste, un antico magazzino dell’Austria, vicino alla stazione e vicino al porto utilizzato per smistare le merci e lì abitavamo io, mia madre, mio zio e mia nonna in un box di legno di tre metri per quattro, senza nessun conforto e con i servizi all’aperto”. È il cammino di sofferenza vissuto da un’intera comunità con grande dignità e consapevolezza. Un cammino, purtroppo, vittima della storia contemporanea a lungo ostaggio di interpretazioni ideologiche e di convenienze politiche. Era Sofocle che diceva che l’uomo civile si distingue dal barbaro perché sa opporsi alla dismisura. Ecco, per gli artefici di questa storia non ci sono gli insegnamenti di Sofocle. Ci sono solo barbari.      

Mirko Polisano

Con Claudio Smareglia, esule istriano

lunedì 27 gennaio 2014

SHOAH, LA MEMORIA E' LA NOSTRA SALVEZZA

La memoria non può essere solo quella di oggi. Deve essere quella di sempre e quella di tutti. Non dico di fossilizzarsi, ma di riflettere quando si può. Ho sempre provato un certo fastidio per i luoghi comuni e per gli eventi spot. Come la beneficenza a Natale o come la festa della donna. E non possiamo permettere che giornate come quella di oggi rischino di avere lo stesso percorso. Perché così diventa una memoria fine a se stessa fatta di Schinderl’s List e di Anna Frank: indispensabili capolavori, ma che non possono essere esclusiva metafora del male assoluto. Essere ad Auschwitz e Birkenau proprio il 27 gennaio è uno dei regali che ho ricevuto da questo lavoro. È lì che ho incontrato Petro Mischtschuk, sopravvissuto ucraino scampato alla follia del campo di concentramento. Mi lasciò un biglietto scritto in cirillico, che ancora conservo. Voleva che continuassimo a fotografare, a riprendere…a raccontare. Per molti, oggi, la paura più grande sembra essere proprio questa: che la memoria si tronchi. In tanti chiedono di cosa sarà quando andranno via anche gli ultimi testimoni.  Se esiste questa paura è perché, forse, già sappiamo la risposta. L’avremmo dovuta già imparare da Nabucodonosor con le sue deportazioni degli ebrei nelle terre babilonesi, l’avremmo dovuta imparare già da Alessandro Magno che vietò lo Shabbat, i sacrifici al tempio e proibì la diffusione dei libri sacri. L’avremmo dovuta già imparare dall’imperatore Claudio che cacciò gli ebrei da Roma e l’avremmo dovuta già imparare anche da Tito che bruciò il tempio a Gerusalemme e per segnare il trionfo fece innalzare quell’arco che porta il suo nome e che ancora è lì, accanto al Colosseo. Se è così, non vorrei che la storia sia maestra di vita. Perché forse Auschwitz c’è sempre stata e rivive ogni volta che è la volta di un genocidio, di una discriminazione, di un pregiudizio. Auschwitz rivive a Srebenica nei Balcani. Auschwitz rivive a Meje in Kosovo. Auschwitz rivive nelle teste di maiale davanti alla Sinagoga. Auschwitz rivive ogni volta che sentiamo parlare di “tutti questi zingari”, “di tutti questi negri” e “di tutti questi ebrei”. E’ quella la più bassa percezione del razzismo che incontriamo al bar, in treno, e anche in certi politici. E purtroppo non ci indigna come dovrebbe. Questa è anche la storia di una classe di bambini di terza elementare e di una maestra che per rispetto nei confronti di un nostro compagno ebreo ci fece provare la merenda con  il pane azzimo. Oggi poteva finire su qualche giornale, e invece ci ha formato come uomini migliori. Ed è stata, per noi, la più importante lezione di storia.   

Mirko Polisano
Brandello di stoffa nella bandiera israeliana che sventolava a Gerusalemme

martedì 7 gennaio 2014

AFGHANISTAN, ADDIO!

Il freddo ti gela le dita e il vento ti taglia la faccia. Gli occhi lacrimano e, talvolta, non solo per la polvere che si solleva. L'Afghanistan oggi appare così. E' iniziata la fase della dismissione e l'aria che si respira ha tutto il sapore di un ritorno malinconico e allo stesso tempo di un breve addio. Il count down segna meno undici al ritiro occidentale da questa terra. Drastico potrebbe essere il termine che sarà accompagnato alla parola bilancio, quando si inizieranno a tirare le somme. Ma non ora e di sicuro non qui. Ne è valsa la pena? La domanda è di quelle che ti fa correre i brividi sul corpo. Più di quelli dovuti ai nove gradi che scendono sotto lo zero la notte su Herat. Non lo so. So che i vecchi spettri di Bala Mourghab, Bala Baluk, Farah e Bakqua ora sono lontane preoccupazioni. Tristi per molti, purtroppo. So che in Gulistan non ci siamo più e che l'unica base avanzata ancora operativa è quella di Shindand, quella stessa contro cui sono stati lanciati i razzi nel giorno del nostro arrivo. E tra poche settimane chiuderà anch'essa. So che a Kabul nel 2008 si poteva girare a bordo di una Toyota bianca anche senza la scorta e cinque anni dopo se non hai truppe al seguito è meglio non andare. So che a Herat ci sono ancora i "warning", gli avvisi del pericolo. L'ultimo oggi e anche grave. So anche che l'Afghanistan è molto altro ed è soprattutto storia, cultura e tradizioni. Stamattina ho incontrato giovani che parlano l'inglese e studiano all'università e ti salutano sempre con un "my friend", scimmiottando un po' gli americani che qui restano i nemici numero uno. So anche di un'umanità tutta italiana che pensa all'infanzia, alla scuola e a costruire i pozzi d'acqua. I nostri soldati stanno ristrutturando perfino una moschea per permettere ai militari e ai poliziotti afghani di avere un luogo dove poter pregare durante il giorno. Questo è l'Afghanistan del 2013, a pochi giorni dall'inizio di un anno che dovrebbe segnare la svolta per l'intero Paese: il 2014, quando le truppe Nato lasceranno le città e la Ring Road. Forse anche noi ce ne andremo come i russi o come gli americani: dal giorno alla notte e ci lasceremo alle spalle le dolci montagne e le vallate desertiche. Parlando di quello che abbiamo fatto e di quello che ancora c'è da fare, un colonnello mi dice della democrazia, nel nome e per conto della quale questa guerra è iniziata. "Il problema non è esportare il nostro modello togliendo il burqua alle donne - mi racconta - la vera democrazia è chiedere alle donne se vogliono indossare il burqa oppure no". Questa che stiamo vivendo è la fase denominata "Retrogade", dove l'inglese ha sostituito la più semplice "Ritirata". Comunque un momento delicato per l'Afghanistan e per gli italiani. In questo periodo, non si è abbassato il rischio degli ordigni improvvisati, anzi: per gli uomini del Genio c'è più lavoro nel disinnescare mine rispetto agli ultimi tempi. La corrente è appena saltata. Il generatore di continuità ci ha salvato dal buio, la guerra fa meno paura quando c'è la luce. Anche l'acqua la mattina manca e le stelle sono meno splendenti: i fari rossi piantati lungo il selciato della base e le lampadine fuori qualche alloggio rendono la visione di un cielo poco limpido. L'aeroporto civile appena costruito dà a Herat un'immagine di città sempre più in movimento, lontana ancora da Beirut nonostante le esplosioni e la minaccia di attentati cerchino di farle sembrare così uguali. Il ritratto di questo paese assomiglia ad un quadro di Klimt, dove tante parti devono restare unite per capirle. Camp Arena rimarrà ancora per poco l'unico avamposto italiano tra polvere e sabbia. Arriverà una soffiata di vento. E così anche l'incubo Afghanistan rischia di diventare solo ricordo. Ma non per tutti. E allora ne è valsa la pena? L'espressione del volto resta impassibile, ferma come immobile. E stavolta non è colpa del freddo.   

Mirko Polisano