A volte, il silenzio è davvero struggente. Sembra che lo tocchi con mano. Sembra che ti penetri nell’anima. Meje ti lascia il silenzio dentro. Quel silenzio che contrasta con le voci e i rumori di una città non lontana che rappresenta il nuovo volto del Kosovo. È Pristina. Capitale autoproclamata di uno stato autoproclamatosi indipendente tre anni fa. Ma anche Pristina ha le sue contraddizioni. Da una parte, i bancomat, i locali con i tavolini all’aperto, le multinazionali; dall’altra ambulanti, venditori di pane e di burek. Moschee e minareti a due passi dalla strada principale, che però è intitolata a Madre Teresa. Fiorentina e Besa sono due belle ragazze che incontro sul treno che da Pec mi porta a Pristina. Sono islamiche ma nessuno osa pensarlo: tacchi alti, jeans stretti e nessun velo. Dall’altra parte della strada, invece, una bambina con il hijab, accompagnata dal papà con barba e tunica musulmana. Eccolo, il Kosovo dei paradossi. Culla della religione ortodossa, con i monasteri medioevali, e roccaforte dell’Islam, dove non mancano le frange estremiste e wahabite che rappresentano una minaccia continua. Sono stato nella piazza dove dopo la preghiera del venerdì si registrano scontri e manifestazioni contro un governo che nega la costruzione di nuove moschee perché ce ne sono già troppe. Nel frattempo, però si bloccano anche i lavori della Chiesa ortodossa davanti la biblioteca nazionale. Ma si costruisce una chiesa cristiana…lì dove di cristiani non ce ne sono. Vado a Gazimestan, dove la leggenda è ancora viva. Sulla “piana dei merli” si affrontano slavi e ottomani e le anime dei morti, si dice, echeggiano nei corpi degli uccelli che al tramonto popolano la spianata, deserta e isolata. La stessa da dove parlò Milosevic per illustrare i suoi intenti di abbattere l’idea della Grande Jugoslavia. Poi ne vedi altre di torri. Sono quelle della centrale elettrica a carbone di Obilic, dove è capitato di respirare acido fenico e altre sostanze tossiche. Ho incontrato ambasciatori, delegati delle Nazioni Unite e figli di illustri presidenti. Uno, Rugova è sepolto nel centro cittadino di Pristina. A due passi dallo skyline, accanto ad un monumento socialista abbandonato nel degrado. Così che trovi l’architettura comunista accanto a grattacieli post-moderni. Un teatro nazionale che ha un cartellone d’eccezione e un gioiellino chiamato Prizren che è soprannominata la “Firenze dei Balcani” per le sue bellezze. E ai ponti sopra il fiume di Prizren si contrappongo altri ponti. Quello di Mitrovica, dove le barricate sono presenti e la tensione si respira davvero. Da una parte la bandiera serba, dall’altra quella albanese. E la gente che cerca di sopravvivere. Poi, un cartello attira la mia attenzione. “Belgrado a destra, Pristina a sinistra”. Così mi chiedo dove sta andando il Kosovo…ma prima di fare il prossimo passo in avanti, so che non si può dimenticare quanto ci lasciamo dietro. In un villaggio vicino Djacova c’è un cimitero con oltre 300 lapidi. Sono sepolti gli uomini albanesi uccisi da serbi incappucciati, fino al giorno prima vicini di casa degli stessi albanesi, che deportarono le vittime nel luogo dove sorge ora il cimitero. A quanto pare, i loro corpi non vennero abbandonati nel campo ma caricati su dei camion e portati in Serbia a 500 Km di distanza. Lì vennero seppelliti in fosse comuni che dopo diversi anni gli organismi internazionali portarono alla luce, riaprendo una delle pagine più dolorose della guerra kosovara, ordinando al governo serbo di restituire alle famiglie i resti delle vittime. Ci sono ancora dei dispersi e i loro volti, insieme, a quelli di chi non c’è più campeggiano sulla recinzione del palazzo del Parlamento. È il memoriale del 27 aprile, data del massacro. Il massacro di Meje. E il silenzio, torna prepotente…
Mirko Polisano
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