“Ho udito i miei passi risuonare sul selciato e ho percepito che potevo ancora abitare la mia città”.
Sono le parole di Gerald Kalman, appena rientrato nella Berlino distrutta dalla guerra. I passi hanno un rumore tutto loro, che ti resta dentro e quasi un cammino dentro te stesso. Lo abbiamo ascoltato quel rumore. Nel centro de L’Aquila, che a tre anni e mezzo dal terremoto resta ancora una città ferita. Le immagini di Obama a naso in su tra le macerie restano un ricordo da cineteca. La realtà è diversa, è dura e fa male. Come se tutto si fosse fermato a quel sei aprile del 2009, il giorno in cui la terra ha tremato. Anche il corso principale de L’Aquila è stato ribattezzato con una targa che ricorda quella tragedia, quasi come accade a Tunisi con la piazza centrale dedicata al giorno delle rivolte arabe. Giù in fondo, la Casa dello Studente. E ti assale un vuoto immenso. Non solo nel paesaggio circostante, ma anche dentro te stesso. Anche il quartiere universitario era popolato di giovani. E sotto il porticato, dove ogni gruppo aveva una sua colonna, in pochi si affacciano. L’Aquila by night si è spostata più in là. Ora questa zona è transennata, chiusa e off limits. Ovunque posi lo sguardo, trovi ponteggi e lucchetti. Impalcature per la messa in sicurezza degli stabili, affinché non crollino e barriere che interdicono passaggi e percorsi. Accediamo alla Zona Rossa, grazie ai militari del 33esimo Reggimento Terrestre Aqui. A bordo di un Vm, esploriamo la città silente. Sullo sfondo antichi palazzi feriti, finestre senza luci, porte serrate e detriti.
Ci spostiamo da una parte all’altra, una piccola città ti sembra addirittura immensa. Anche le chiese presentano ancora i segni della natura inclemente. Nella chiesa delle Anime Sante si può entrare, ma resta transennata; nella Basilica di Santa Maria in Collemaggio, Celestino V è ancora lì con la leggenda che lo accompagna, compresa quella di Dante e del “Gran Rifiuto”.
Qui è come il Giappone: crolla la pietra, resiste il legno. È la dura lezione della storia: il tetto della navata integro, la cupola cede. Su questo principio, si è mosso anche Renzo Piano che poche settimane fa ha inaugurato il suo Auditorium, contestato e applaudito allo stesso tempo. Un segnale di ripartenza, che si arresta di fronte ad un’altra chiesa: quella di San Bernardino. La facciata è totalmente puntellata, impossibile accedervi.
Per gli amici è Leò ed è stato il primo bar ad aprire a L’Aquila. Le immagini del suo orologio fermo all’ora del terremoto hanno fatto il giro del mondo. La sua storia ti prende…come la sua voglia di fare. Dello stesso spirito e con lo stesso coraggio è Marzia Buzzanica. Per tutti è Vinalia, il nome del suo vecchio ristorante distrutto dal terremoto. Ne ha aperto un altro: “Percorsi di Gusto” in pieno centro storico, al limite della zona rossa. Anche la sua è una storia particolare: viene da Tripoli e le macerie che ha a due passi sembrano davvero quella della Libia post guerra. Nel suo locale offre specialità gourmet, L’Aquila riparte dalla sua pizza ha scritto un noto settimanale. E’ vero. Una scritta ci colpisce. È sul muro di questo ristorante così chic che davvero ti fa dimenticare cosa accade fuori. Recita così: “Non so che succederà…ma noi ce la faremo”. È il vero carattere degli aquilani. Anche quello di Maurizio De Luca, che gestisce il chiosco “La Fenice”, a due passi dal forte spagnolo. Ha 42 anni e da 20 è nel commercio. Ha deciso di aprire in un punto dove il terremoto non lo vedi, non sembra ci sia mai stato. Il panorama è quello de Castello da una parte, del Gran Sasso, dall’altra. Il terremoto però ha disunito invece di unire, sostiene Maurizio. Gli stessi aquilani, la stessa politica. Massimo Cialente è da pochi mesi stato rieletto nuovamente sindaco del capoluogo abruzzese. Lo incontriamo nel suo studio, all’interno della vecchia casa comunale. La domanda è d’obbligo: a che punto siamo? “Abbiamo perso due anni”, altrettanto secca la sua risposta. A L’Aquila, ci sono ancora persone che attendono di rientrare nelle proprie abitazioni. Dei 67 mila sfollati nel 2009, solo 34 mila hanno fatto ritorno a casa. Gli altri sono alloggiati, per la maggior parte, nelle New Town volute fortemente da Silvio Berlusconi. Si tratta di complessi residenziali dove sono stati sistemati i nuclei familiari, fatti evacuare a causa del terremoto. Contestate da molti, urbanisti e architetti per lo più, di destra e di sinistra, che si sono schierati contro la logica delle New Town: non funziona spostare persone in luoghi avulsi dalla loro vita e dalla vita di altri. Entriamo in queste New Town. Visitiamo quella di Bazzano. Qui ci accoglie la signora Isabella con un’ospitalità tipica abruzzese. Ci offre del caffè e ci parla di lei: ha otto figli, di cui tre maschi. 87 anni portati con entusiasmo e voglia di vivere. Spera di rientrare nella sua vecchia abitazione nel rione San Francesco. “Peccato il supermercato – mi dice – che si può raggiungere solo in macchina. A Bazzano sto bene, ma voglio tornare a casa mia”. Così è anche Gilda, di anni ne ha 80, il suo quartiere è La Torretta e dopo alcuni mesi a Giulianova, al mare le hanno assegnato un alloggio qui.
E’ un centro storico, silenzioso e fantasma, quello che lasciamo. Bonificato dai topi, perché con l’assenza di acqua dalle fogne i ratti hanno invaso la città; riempito dal suono dei propri passi e da scuole e case distrutte. Come questa in via Rocca di Corno. Una camera da letto, le tende alla finestra e un citofono che non suona più…
Sembra di sentire invece il tintinnio delle chiavi appese alle transenne, l’ultima protesta messa in scena dagli aquilani. Le donne hanno anche decorato parti della città con teli lavorati a mano da loro. Ci credono in questa città, ma sul futuro troppe incertezze e qualche speranza.
L’Aquila potrebbe essere il simbolo di questa Italia, ferita ma con tanta voglia di fare. Come la bandiera afflosciata sul Forte Spagnolo: ora assopita, ma pronta a sventolare. A piazza Duomo è ripresa la vita.
Sotto i portici, invece, c’è una bacheca dove tutti si fermano a lasciare un pensiero. Anche noi, lasciamo il nostro.
L’Aquila, una storia che non vorremmo mai raccontare.
Mirko Polisano
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