Non sbagliava Antonello quando, in una sera di questa calda estate, mi disse che mai più avrei visto un posto senza gli occhi del “viaggiatore”.
Così anche un luogo di vacanza ha la sua storia da raccontare. Quella che non ti aspetti. L’aereo sorvola le scogliere e il freddo mare del Nord. Dublino ti accoglie con tutte quelle prerogative di una capitale europea, degna di tale nome: efficienza nei trasporti, nei servizi e punti di informazione per i turisti attivi. Il verde è ovunque e contrasta con il grigio del cielo. Il cielo d’Irlanda è basso e grigio: lo dice anche una canzone, che è “un tappeto che corre veloce”. Sembra che le nuvole ti sfiorino la testa…e qualcuno quel cielo l’ha toccato davvero con un dito. Sono gli italiani, i nostri connazionali, che qui hanno dato vita ad una nutrita comunità. Una vera e propria “Little Italy”, che ti riporta con il pensiero a quella americana, e non solo con il pensiero. Siamo tornati ad essere un popolo di migranti. Era un tempo remoto, quel tempo fatto di valigie di cartone e teste piene di sogni e speranza. E, invece, eccolo di nuovo questo tempo. Ho incontrato tanti giovani, con quelle stesse teste piene di sogni e speranza…che il nostro di Paese ha mandato via, forse perché il nostro non è un paese per chi ha progetti e prospettive. Li ho trovato psicologi e professori, stanchi della nostra casta universitaria e stufi della corsa annuale al Provveditorato, tra supplenze e cattedre che non arrivano. Lavorano quasi tutti in un quartiere chiamato “Stillorgan”, un business center che sembra uscito da un film di Paolo Villaggio, dove non manca chi organizza eventi di beneficenza e incontri aziendali. Così simile, allo stesso tempo, ad un altro film, di un altro Paolo, Virzì. Come in “Tutta la vita davanti…”, ci sono classifiche di vendita e dipendenti che fanno a gara per avere gli incentivi a fine mese. Per noi italiani, si sa, la tavola è sempre da onorare e anche una semplice pausa pranzo si trasforma in un momento di incontro e convivialità. Come a scuola o all’università, dove si esce tutti insieme e magari ti fermi a mangiare degli arrosti in un mercatino che, a cadenza settimanale, quasi trasforma Dublino in Marrakesh, per odori e fumi, tipici della piazza di Jami-el Fna. Anche la sera si sta in compagnia, a tifare Italia davanti alla tv, che è arrivata in finale agli Europei, battendo anche l’Irlanda. Oppure, a bere una birra. Una, si fa per dire. Perché qui la birra è una cultura. Non è una novità, questa, ma resti comunque meravigliato nel sorseggiare una pinta in posti impensabili. In un pullmann adibito a pub, in un ex mercato coperto, in una banca o addirittura in una chiesa, sconsacrata e trasformata in un’autentica birreria. Si chiama “The Church”, appunto e nel nome di Arthur Guinness anche un popolo cattolico e credente come quello irlandese strizza l’occhio al profano. È un po’ contraddittorio questo paese, tanto nazionalista da sfidare Sua Maestà d’Inghilterra e Belfast resta ancora una ferita aperta; tanto attaccato al Vaticano, da rinnegare l’aborto, quanto difensore estremo delle coppie di fatto; c’è un welfare solidale che funziona e che prevede che il lavoro non lo decide il sesso o l’età, bensì il curriculum e non è necessario, per questo, inserire la tua foto. Parlano le tue esperienze.
Ma c’è anche un “Ago” lungo la via centrale, che è ritrovo di tossicodipendenti e “knackers”. Sono altri giovani, questi, irlandesi, che indossano tute bucate dell’Adidas e si ritrovano nelle vicinanze dello “Spire”, in vicoli bui e poco frequentati. Vivono a spese dei servizi sociali e di quel welfare che li sostiene e mantiene. “Questo monumento contro l’Aids a noi irlandesi proprio non piace – mi dice un vecchio signore – si vede che l’ha fatto un inglese…”.
Lungo le rive di un fiumiciattolo, nel quartiere Portobello, c’è un locale, unico a Dublino, dove la birra puoi sorseggiarla all’aperto e in quelle poche giornate dove la pioggia non ti fa compagnia, li vedi tutti fuori con i bicchieri in mano: chi con la Guinness, chi con il sidro di mele. Rieccoli, i giovani italiani che parlano una lingua tutta loro, fatta di tecnicismi e nuovi termini. Un altro film, ancora: Tempi Moderni di Charlie Chaplin quando l’alienazione e la catena di montaggio entrano nel quotidiano. Le loro voci nella confusione della sera ti dicono che devono prelevare i soldi da un “Atm”, il nostro bancomat, che anch’esso poco sa di italiano; che devono “shiftare” le ferie o “swappare” un turno o ancora “toppapare” l’abbonamento metro.
Quasi non li riconosci, poi pensi che poco importa che lingua essi stiano parlando: hanno avuto il coraggio di costruirsi il loro futuro lasciando casa, famiglia e amici.
Rappresentano anche loro l’orgoglio di essere italiani. Io non so se ce la farei…
Forse perché io “non mi sento italiano”.
“Ma, per fortuna o purtroppo... Lo sono”.
Mirko Polisano
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