STORIE DI UOMINI. La prima cosa che mi ha colpito dell’Afghanistan è stata la notte. Non per la paura, che in posti come quelli è una compagnia con cui fare i conti. Ma perché lì ti accorgi di quanto è immenso il cielo. Di quanto esso possa essere luminoso, vasto, infinito. Le stelle ti illuminano la strada, come se dall’alto qualcuno ti indicasse il sentiero da percorrere. E i tuoi passi sono solo tuoi, che infili l’uno dietro l’altro. Perché lì ne capisci il peso e l’importanza: è uno in più. In un paese in cui, ad oggi, gli unici passi che sono stati fatti, sono quelli indietro, sotto il profilo economico, sociale e politico. Quasi ci parli con quelle stelle. Io ne avevo una mia, una che sceglievo ogni sera, pensando fosse la stessa, e a essa confidavo le mie emozioni. Ed io lì ero solo di passaggio. Quella mia compagna raccoglieva sicuramente anche gli sfoghi e le paure di chi lì, per scelta e dovere, deve restare sei mesi, e più. Uomini e donne con il cognome scritto su una divisa pronti a rispondere: “comandi!”. Spesso, accusati di essere mercenari e di guadagnare tanto. Ma chi punta il dito, con la stessa facilità dimostra di non sapere. Di non sapere che dei soldi, in posti come questo, poco importa e che la scelta non è quella se andare in Afghanistan o in Iraq, ma di andare e basta, perché l’ha scelta è stata fatta tempo prima. Edoardo Luzzi è un militare, originario di Latina, arruolato nel battaglione San Marco, tra le punte d’eccellenza delle nostre forze armate: i nostri marines, in pratica. Lui che con i Marines Usa ci ha lavorato. “La scelta di andare la fai quando decidi di indossare la divisa”, mi disse un giorno. Era sincero, come lo è stato Andrea che dopo sei mesi di missione in Iraq è partito subito per l’Afghanistan: “i soldi non mi mancavano…perché ripartire? Perché partivano tutti gli altri…e io dovevo andare con loro”. Così come Vittorio che si sarebbe attaccato alle ruote dell’aereo quando doveva andare in Kosovo negli anni della guerra, proprio perché non lo stavano facendo partire. 51 di loro e come loro sono partiti. Destinazione Afghanistan: non sono tornati.
UN’ALTRA MISSIONE. Bala Murghab, Shindand, Farah, Kabul. Su queste strade sono morti molti dei nostri militari. Saltati in aria da un esplosivo, caduti in un conflitto a fuoco, sparati in base da soldati afghani che tentavano di addestrare. Non c’è fine alla tragedia, a questa emorragia di vite umane. Nel luglio dello scorso anno, nel corso di un combattimento a non farcela è stato David Tobini, 28 anni. La mamma lo va ad accogliere all’aeroporto di Ciampino. Ma questa volta, il copione non è lo stesso. Annarita, questo il nome della donna, va a testa alta e con il basco del figlio in testa. Quel gesto che ti fa capire che non sempre le cose vanno subite, ma anche affrontate. Da quel giorno, Annarita lancia il suo messaggio all’Italia intera: che non può tutto finire così. L’ho incontrata in un pomeriggio di dicembre, sotto la statua del Bersagliere a Roma. Suo figlio era paracadutista e abbiamo iniziato a parlare. Forse è nata proprio lì l’idea che il dolore non può essere solo il suo…se il suo ragazzo se n’è andato nel nome di tutti. Ci siamo fatti tante domande, quel giorno: la patria, le istituzioni e ci siamo guardati intorno. Eravamo io e lei. Mi disse due cose che non potrò mai dimenticare: la prima, che il figlio non è un eroe. È un ragazzo come tanti altri, disposto a tanti sacrifici. La seconda, che l’ultima persona per cui può provare risentimento è proprio il talebano che ha ucciso suo figlio. È una trincea e in trincea, si gioca con la vita. Una mattina su facebook parte l’iniziativa. Il tam tam in internet ha fatto il resto e grazie alle tante persone di buona volontà è nata questa associazione. “Caduti di Guerra in Tempo di Pace” ha iniziato a raccogliere le sue adesioni. Prime fra tutti quelle dei parenti dei militari italiani caduti in Afghanistan. Per continuare quella missione che i loro cari hanno lasciato in sospeso.
I PERCHÉ. Inspiegabili in Afghanistan. Inspiegabili davanti alla morte. Inspiegabili quando è un figlio ad andarsene. Inspiegabili quando i termini “missione di pace” e “caduti” si incontrano; inspiegabili quando ti dicono che stai lì per combattere il terrorismo internazionale esploso dopo l’11 settembre, nel frattempo che Bin Laden è morto, per altro in Pakistan, e Al quaeda ha spostato le sue cellule operative tra Yemen, Quatar e Arabia Saudita. Allora ti chiedi tante cose. Come nasce l’idea di un’associazione? “Tante volte ce lo siamo chiesto – dice Annarita Lo Mastro, Presidente dell’Associazione Caduti di Guerra in Tempo di Pace - e la risposta più ovvia è sicuramente quella più dolorosa, vale a dire la tragedia che ha colpito le nostre famiglie. Un dolore improvviso che per forza di cose devi condividere con tante altre persone: i funerali di stato, la presenza delle istituzioni ma poi, forse perché così è anche la vita, gli stessi familiari vengono lasciati da soli con il proprio dolore. Proprio da qui nasce l'idea che ha lo scopo di non lasciare nessuno da solo, ma aiutare i familiari dei caduti in Afghanistan offrendo loro un aiuto e una serie di iniziative culturali e di attualità che hanno proprio lo scopo di non dimenticare”. Che tipo di iniziative avete in programma? “L'associazione si pone come organo di partecipazione e collaborazione nei confronti dei familiari e non come associazione di protesta nei confronti di qualcuno. Certo è che faremo valere quelli che sono i nostri diritti, che sono diritti di cittadini prima che di familiari...A questo, si affiancano le attività di promozione sociale e culturale. Tra queste, mostre fotografiche sui nostri militari in azione all'estero, concorsi di giornalismo aperti ai giovani, convegni e incontri sull'attualità, cercando di creare momenti di riflessione attraverso gli organi di informazione e le testate nazionali. Tutto nasce con la massima partecipazione e collaborazione dei familiari che prenderanno parte all'associazione, molti li abbiamo contattati altri li stiamo contattando. Voglio ringraziare tutti loro per l'impegno e il supporto e siamo pronti ad accogliere quelle che sono le idee di tutti. Chiunque vorrà far parte dell'associazione può contattarci via mail all'indirizzo: cadutidiguerraintempodipace@gmail.com”. Perchè solo l'Afghanistan? “Questa è un'altra tematica a noi molto cara. E allo stesso tempo molto complessa. Il rispetto è ovviamente per tutti i caduti di guerra in tempo di pace...e solo chi vive questa situazione può capire. Da questo punto di vista siamo tutti uguali. L'Afghanistan, al momento, è il conflitto per cui l'Italia ha versato il suo più alto tributo di sangue, dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ora partiamo con le famiglie dei 51 caduti, ma siamo pronti ad accogliere e aiutare tutti i familiari di caduti per altre le missioni”. Un'associazione per dire "mai più vittime in Afghanistan"? “L'associazione sta con i piedi per terra e non possiamo assolutamente vendere e false speranze o obiettivi troppo grandi per noi. I nostri pensieri sono sicuramente questi e di impedire questa continua emorragia di vite umane...ma siamo anche consapevoli che in questa partita il ruolo strategico e decisivo lo gioca la politica. Non vogliamo entrare, nè possiamo farlo, nelle dinamiche di politica internazionale. Noi saremo di supporto ai familiari, a chi resta...saremo vicino ai piani bassi e cercheremo di coinvolgere quelli alti... Ci hanno detto che per fare tutto questo, ci vuole una forte motivazione alla base...
E se non la abbiamo noi...”.
L’associazione è partita proprio da Ostia in una serata d’estate. Insieme ad Annarita, c’era sul palco un’altra mamma straordinaria: Rosa Papagna, madre di Francesco Positano. Anche lei donna piena di coraggio e determinazione. “In questa associazione ci credo- afferma dal palco – perché devo andare avanti, per me e soprattutto per mio figlio”. Anche Francesco è andato via giovanissimo. Un’associazione che unisce e abbatte le barriere, fossero anche quelle della burocrazia che classifica “vittime del terrorismo” da “vittime del dovere”, quelle della quantificazione del dolore dove si cerca di condividere e non di lasciare soli, mogli, fratelli, sorelle e padri. Il cosiddetto “punteggio Afghanistan” è quello che a quasi trent’anni ti dice se resti precario o continui, perché come in tutto il mondo del lavoro in Italia, anche qui il posto fisso te lo devi guadagnare. Solo che qui con la gavetta ti giochi la vita.
NOTTE DI STELLE. A prendere parte al battesimo dell’associazione sono stati diversi esponenti del mondo dell’informazione e degli esteri. Paolo di Giannantonio è il mezzobusto del Tg1. Ha raccontato la guerriglia in Afghanistan che ha portato, nel 1992, al ferimento del suo operatore Enrico Cappozzo, che dopo quell’esperienza ha smesso con la telecamera e ora studia storia e filosofia a Viterbo. “Ogni tanto lo vado a trovare – ha detto commosso Di Giannantonio – e adesso ci chiediamo se ne sarà valsa la pena”. Duilio Giammaria, sempre del Tg1, ha parlato del suo amore per quel paese, mentre Fausto Biloslavo, de Il Giornale e Panorama, ha portato la sua testimonianza dei giorni del suo sequestro e della sua prigionia a Kabul. Il tutto davanti al mare di Ostia, che ha visto ebrei e musulmani parlare di convivenza e tolleranza, che ha visto due mamme salire sul palco e condividere un dolore.
C’è una foto che ritrae Annarita e Rosa. Sembra infondere coraggio, un sorriso accennato e quasi a voler dire: “insieme possiamo farcela”. È questo lo scopo dell’associazione.
Sotto il cielo di Ostia, in una notte d’estate è accaduto questo. Le stelle non sono quelle dell’Afghanistan. O forse, si. E da lassù altre stelle ci hanno visto e guardato.
Per questa notte, sono state loro ad essere orgogliose delle proprie mamme.
Mirko Polisano Pubblicato sul Sito www.spiritolibero.net
http://spiritolibero.roma.it/2012/07/14/notte-di-stelle-cadute/
Annarita Lo Mastro e Rosa Papagna, due mamme straordinarie.
Mirko Polisano e Duilio Giammaria (Tg1)
Con Paolo Di Giannantonio (Tg1)
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