Quando arrivi ad Addis Abeba ti
manca il fiato. Il sole è forte, anche se è sorto da poche ore. L’altitudine ti
dà questa sensazione di asfissia, anche se con la mente pensi possa essere il
paesaggio, la città, l’Africa. L’Etiopia è ancora un paese che parla italiano,
dove il traffico è peggio di quello di Roma e dove il caffè è davvero buono. Per
le strade della capitale, ancora puoi incontrare i figli della guerra e della
povertà. Come quei bambini che si nascondono allo stadio perché essere orfani e
soli qui è un reato. La legge è rigida e severa. Le donne hanno un fascino che
ti travolge e le pene sono inasprite anche per gli italiani amanti del turismo
sessuale che ora rischiano il carcere se scappano in caso di gravidanza. Viaggiamo
su mezzi strani e improbabili: un bus affollato e carico di umanità, un ape
attrezzato a taxi. Qui li chiamano “banjangi” e con pochi euro ti portano
ovunque: dai sentieri non asfaltati alle sterminate distese di sabbia rossa. Anche
l’aereo non è di quelli sicuri. Sembra il charter dei film di Pozzetto e
Villaggio, manca solo il lavavetri che compare mentre sei in volo. D’altronde,
la stagione delle piogge non è ancora conclusa e i temporali sono intensi ma
brevi. Ci spostiamo a Dar es Salaam, capitale della Tanzania. Anche qui il
traffico ti accoglie e come in una veloce sequenza ti appaiono al finestrino
venditori di tutto: banane, arance, patate, palloni, dvd e perfino coltelli e
bastoni. Di notte, le strade sono presidiate da militari e guardie armate: la
sicurezza è un serio problema, soprattutto se sei bianco. Arriviamo nel periodo
della Pasqua e della festa nazionale, che proprio quest’anno fa celebrare alla
Tanzania i suoi primi cinquant’anni di unità. Il nazionalismo è molto sentito:
in tv, tutti guardano la cerimonia ufficiale e il silenzio nei locali ti
colpisce. Così come nelle scuole, dove i bambini prima di entrare in classe
cantano l’inno e omaggiano la bandiera. La religione è l’altro perno di questa
società. Islamici e cattolici vivono nel rispetto reciproco. Nel giorno di
Pasqua, viaggiamo per le città del sud, al confine con il Mozambico, e siamo
trascinati in balli popolari e coinvolgenti per la festa più importante del
mondo cristiano. In alcuni hotel, invece, sono rigide le pratiche musulmane, soprattutto
quelle del divieto di consumare alcool e di dormire insieme per le coppie non
sposate. La differenza la noti solo nei nomi: i biblici Moses, Ellen e Natalia
sono di estrazione cattolica, Mohamed e Abduramein, di facile intuizione. Nei villaggi,
il football resta l’amore della vita. Non importa di quale squadra, l’importante
è indossare una maglia da calcio. Messi e Torres sono i beniamini di sempre e
Arsenal, Chelsea e Barcellona vivono il loro sogno della Champions League. E le
partite di pallone si giocano con una palla fatta di buste di plastica e con
uno scarpino alternato nella migliore delle ipotesi ad una ciabatta oppure se
proprio va male, ad un piede scalzo. Hassan
è un insegnante di storia. Vorrebbe lavorare all’università il prossimo anno,
ma per ora si accontenta delle elementari. “Ho scelto queste classi – mi racconta
– perché i più piccoli non parlano l’inglese e io posso insegnarglielo. La
bellezza è nelle fondamenta e questi bambini sono le basi di questa società”. Qui
andare a scuola, è ancora un privilegio. Può permetterselo solo chi ha una
divisa. Di notte, una sera arriva Addara. È stato uno dei primi ad avvicinarsi
a Carla per chiedere di studiare. Lei gli regala la divisa per frequentare la primary
school. Ha preso la licenza: oggi è un insegnante. Già Carla. Lei, romana di
Centocelle, che in questa terra ritrova ogni volta se stessa. Con l’associazione
Silenas, qui porta alimenti e medicine. “La cosa bella – mi racconta un giorno –
è che quando porto un po’ di riso, fagioli o ugari loro sanno che devono
dividere tutto”. Il suo impegno oggi è per costruire una casa famiglia per 40
bambini abbandonati e un punto di primo soccorso perché qui le donne ancora
partoriscono per strada e la malaria è sempre un’emergenza. Questa resta una
terra contesa. Il pericoloso Mozambico lascia alla porta volontari e reporter:
è troppo pericoloso per entrare. Il paesaggio è indimenticabile e i baobab
segnano i punti di congiunzione di questo continente, come in una settimana
enigmistica dove devi collegare l’uno con i successivi per tirare fuori la vera
immagine. Il Terzo Mondo è questo e non è, poi, così lontano. Come non sono
lontane e sconosciute le scene dei bambini con le mosche sul naso o la pancia
gonfia. Anche l’Aids resta un tabù e chi contrae la malattia è costretto ad
indossare un segno giallo che dice: “io ho l’aiz”. Si perché la malattia passa
ancora per il contagio da contatto, e questo stereotipo è difficile da
combattere. Intanto, russi, cinesi e arabi hanno trasportato qui i loro
interessi: il Burundi, per esempio, a due passi da qui, sulle riviste
specializzate è già sponsorizzato come sito per importanti investitori
stranieri. Il ponte che collega la Tanzania al Mozambico è ormai ultimato e la
storia del gas è sempre una plausibile giustificazione a tutte le guerre. Io,
ritorno in Italia. Altro paese difficile e lascio qui il mio “saluto bianco”,
come diceva Sèdar Senghor, poeta senegalese ideatore della Negritudine. Quel
saluto che va “al di sopra dei reticolati”.
Dell’odio e dell’idiozia.
Mirko Polisano
Una carezza dall'Africa |
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