Ci sarebbe voluto ancora molto
però perché si potesse farne memoria, perché l’inimmaginabile prendesse forma
agli occhi di tutti, perché la volontà di tutti di guardare avanti si piegasse
al ricordo dei morti e del dolore. Pochi, tornati cominciarono a scrivere ciò
che avevano visto. Sarebbero divenuti i testimoni, protagonisti di una tragedia
vissuta in prima persona. Il primo tassello per ricostruire e raccontare questa
storia che, oggi, pur a tanti anni di distanza, non vogliamo e non possiamo
dimenticare perché ha segnato per sempre il novecento e le generazioni che sono
venute dopo. “Ad Auschwitz tante persone, ma solo un grande silenzio”, cantava
Francesco Guccini. Anche i passi segnati dagli anfibi sulla neve bianca hanno
una immagine tutta loro. Qui, nel campo di concentramento più grande del mondo,
dove le orme dei militari tedeschi hanno segnato la peggiore strada nel cammino
dell’umanità, si resta storditi dall’orrore. Devi patire il freddo di gennaio
per capire la sofferenza di chi, con addosso solo un pigiama a strisce, ha
trascorso qui il suo inferno. La neve è alta. Il cielo grigio. Pensiamo che,
forse, esistano luoghi, dove la primavera non arriva mai: la coltre di dolore è
troppo fitta, affinchè i raggi del sole possano scalfirla. La storia studiata
sui banchi di scuola ti appare davanti in tutta la sua drammaticità. Le
deportazioni di ebrei, contestatori politici, intellettuali, zingari e
omosessuali sono la pagina più brutta di quei libri. Auschwitz è un ex caserma,
i blocchi sono in cemento e al loro interno trovarono la morte circa 70 mila
persone. Un posto squassante di emozioni. Gli oggetti sono triste ricordo dei
fatti, ma anche delle persone. Gli occhiali, così tanti, così uguali…quasi a
indicare un tempo e un modo di essere. Le protesi delle persone disabili: gambe,
stampelle, busti…oggi svelano il risvolto più amaro. Nessuno di loro ce l’ha
potuta fare. Selezionati subito e inviati nelle camere a gas. Dove dalle docce
usciva lo Zyklon B, disinfettante usato per uccidere…
Le valigie, anch’esse tante.
Fatte di corsa, davanti ai militari delle SS. Nella parte frontale, il nome
scritto a caratteri grandi…per non perderle…perché dentro c’è quello che serve.
Così sono stati caricati sui carri bestiame il signor Pasternack, Petr Eisler e
Klara e Sara, magari sorelle, magari madre e figlia. Dieci minuti per prendere tutto.
Poche cose, ma indispensabili. Le donne: pentole e termos per preparare un
pasto caldo per i figli; gli uomini spazzole e pennelli per la barba. Ti
raccontano che le mamme chiedevano di andare nelle cucine per preparare da
mangiare ai bambini che avevano fame…
Da una parte non vorremmo
raccontare tutto questo, troppo crudele per descriverlo. Come se entrassimo
troppo nell’intimo, nel personale di un uomo, di un individuo. Ma abbiamo il
dovere di farlo, perché non possiamo raccontare tutto questo, senza far capire
e vedere tutto questo. Tanto altro, per rispetto, non possiamo mostrarvi.
Capelli, vestiti…poi, le scarpe a migliaia…comprate chissà per quale occasione
e finite per essere indossate nell’ultimo giorno di libertà.
Essere nel Giorno della Memoria a
Auschwitz è quasi un privilegio che questo lavoro ti concede. Riesci a
comprendere l’inspiegabile, l’inaccettabile, e l’assurdo. In tutto il mondo, si
celebra questa giornata, ma qui ad Auschwitz ha tutto un sapore diverso. Una
composta deposizione di fiori è molto di più di ciò che in realtà è. È la
semplicità del dolore. Siamo nella piazza centrale, tra ex combattenti,
militari e il sindaco che è deciso e categorico: “Questa città ha una sua
identità – mi dice il primo cittadino polacco- per tutti è Auschwitz, con il nome
tedesco ma siamo in Polonia e il suo nome è Oswiecim. Abbiamo una nostra
comunità, ma dobbiamo sottostare al passo della storia, che non possiamo
dimenticare”.
Oswiecim è una città tradita dal suo
passato, l’occupazione tedesca l’ha trasformata in Auschwitz e la resa celebre
nel peggiore dei modi agli occhi dell’intero pianeta. Il “campo madre” è ancora
un brulicare di turisti, che si fermano a Oswiecim, ma che da qui scappano, con
le lacrime agli occhi. A Oswiecim i turisti non dormono, magari preferiscono la
vicina Cracovia bella e innevata anch’essa, che sembra uscita da una favola
medioevale e come in tutte le favole ci sono i buoni e i cattivi…e Oswiecim al
solo suono fa paura…
Auschwitz, Il Cortile della Morte |
Mirko Polisano
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