NOI E L’AFGHANISTAN: TRA FIDUCIA E RICORDO…
di Mirko Polisano
Quando parli di Afghanistan sono le emozioni che ti travolgono. Le stesse che cerchi di trasmettere a chi ascolta le tue storie. Ecco il perché del coinvolgimento, di questo “Noi”, che un po’ ci lega a quella terra, dove guerra e pace si confondono, tanto da non farci neanche bene capire il perché di una missione così importante, ma di cui si parla solo quando uno dei “nostri” – ritorna questo senso di appartenenza – non ce l’ha fatta. Eppure in Afghanistan, le giornate scorrono proprio come qui da noi: ho visitato il mercato di Farah. Era un tripudio di colori. Ho visto venditori di dolci e pasticcerie di Herat con panna montata e miele, da far impazzire i golosi. Ho incontrato i nostri ragazzi, anche se a loro non piace essere chiamati così. Sono militari che sanno fare il loro lavoro, che non si tirano indietro davanti a ordigni e imboscate. Possono essere i nostri figli, i nostri mariti, le nostre mogli. Ecco, il nostro che ritorna. Le nostre sorelle, le nostre figlie, le nostre amiche. Come Emanuela. 25 anni, Caporal Maggiore dell’Esercito. Arruolata negli alpini. Lei che con gli alpini aveva poco a che fare: veniva dal mare, quello di Ostia e abita ad Acilia. L’ho incontrata ad Herat, la vigilia di Natale. È stata la prima persona che ho conosciuto tra quelle montagne alte e polverose. Ho sentito un po’ l’accento, un po’ l’aria di casa. E’ stato il destino, ho detto scherzando. Chissà quante Emanuela ci sono che negli angoli più difficili di questo mondo fanno il loro lavoro tra mille difficoltà. Per questo dopo “noi e Afghanistan” c’è la parola “Fiducia”. Perché è anche in loro che bisogna avere fiducia. E mi vengono in mente le parole di un saggio afghano. Eravamo proprio in quel mercato così profumato di spezie, che mi disse: “per vincere questa guerra c’è bisogno di fiducia”. Io gli risposi che forse a noi non importa vincere la guerra, ma far vincere la pace. “E’ uguale mi disse lui…perché per vincere la pace devi conquistare le menti e i cuori degli afghani”. Non so se riusciremo a conquistare le menti e i cuori degli afghani, un popolo che difende con orgoglio le proprie usanze e le proprie tradizioni. Che non accetta tempi e padroni. Allora, capisco a questo punto l’importante non è più vincere, ma non perdere. Non perdere uomini e vite umane. Giorgio Langella è stato l’ottavo caduto italiano in Afghanistan. Se ne è andato nel settembre del 2006 a Kabul e quella mattina neanche doveva essere lì. Di nuovo, ricompare il destino. E in Afghanistan ognuno lo chiama a suo modo: fede, fatalità, caso, coincidenza, dovere. E il Caporal Maggiore Langella se n’è andato adempiendo al suo dovere. Al suo fianco ha avuto, a me piace continuare ad usare il presente, ed ha una moglie forte e determinata. Si chiama Francesca. Ha scelto di vivere ad Ostia perché il mare le ricorda suo marito. In tanti le hanno promesso vicinanza e affetto…ma passano i giorni, i riflettori si spengono e…tutto scorre. Così l’indifferenza torna ad essere protagonista. Fino al prossimo che atterra avvolto da un tricolore. Si ritorna a parlare di Afghanistan e del perché di questa guerra, che al sol pensiero di chiamarla “giusta”, mi lascia perplesso. È qui che subentra il “ricordo”. Il titolo ora è al completo: “Noi e l’Afghanistan: tra fiducia e ricordo…”. Ma non il ricordo nostalgico e fine a se stesso. Quello attivo, nel senso letterale del termine, che ti dice: “non dimenticare!”. Non possiamo dimenticare l’Afghanistan, la sua gente, Emanuela e tutti quei ragazzi, si continuo a chiamarli ragazzi, impegnati a difendere quei valori in cui sono rimasti in pochi a credere, Giorgio e tutti quelli che non sono più rientrati. E siamo arrivati a 44.
Non lo dimentichiamo…
Mirko Polisano
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