Ho deciso di dedicare questo penesiero del mese di marzo alle donne. Perché, proprio in un momento in cui tutti lo gridano, noi in questo ci abbiamo sempre creduto. Nelle donne e nel loro talento. Ne abbiamo raccolte quattro e forse più, che ci raccontano la loro vita tra successi e difficoltà. Perché loro sul lavoro, le difficoltà le hanno trovate e le troveranno. Perché loro le scorciatoie non sanno cosa siano.
Io ne vedo tante di donne, ogni giorno. Dalle mie insegnanti che da insegnare avevano davvero tanto. Ricordo la mia maestra, madre di due figli, che si divideva tra noi, loro e i suoi problemi di salute. E non ha mai trascurato nessuno. La mia prof delle medie. Sola con un gioiello di nome Anna Chiara. Speciale proprio per quel suo cromosoma in più. E Nicoletta di educazione fisica che ha dovuto abbandonare la cattedra, ma non ha dimenticato i suoi alunni. E Patrizia che nella vita non si è mai arresa. Odiava la matematica e non gliela diede vinta. Divenne professoressa di quella materia. Una battaglia personale che è riuscita a vincere. Ma la più grande, purtroppo, l’ha persa un giorno di agosto, lasciandoci soli, nell’anno della maturità.
Poi, le donne della mia famiglia. Ma che possono essere quelle di qualsiasi altra. A partire dalle nonne, pronte ad ascoltare, forti nonostante la malattia; severe ma allo stesso tempo capaci di volersi e volerti bene. È alle “donne qualunque” che è rivolto il numero di questo mese. Chi va a lavorare per arrotondare uno stipendio che non basta, chi accompagna i propri figli a scuola, chi ha il coraggio di credere ancora nel lavoro che ha sempre sognato, ma anche a quelle sole, disoccupate e che nonostante tutto, non si arrendono.
È anche per loro che ho deciso di prendere parte alla giornata della mobilitazione, in cui in tante sono scese in piazza. Per dire basta. Basta all’immagine della bionda, bella e stupida, basta all’immagine della sciocca, basta alla carriera che cresce sotto una scrivania. Basta a chi festeggia la donna l’8 marzo, come se fosse un contentino di cui andare fieri.
C’è un bell’articolo nella nostra rubrica “Il Talento nel Mondo”, parla dei Veli di Dubai, dove le donne indossano il tradizionale velo islamico. Sono stato in Afghanistan e inutile dire del burqa e delle donne-fantasma. Sembra che nel mondo arabo i diritti della donna si vietino attraverso la religione. Ma non tutti sanno che qui c’è un clamoroso equivoco culturale. La religione islamica, infatti, non prevede nessuna copertura tipo burqa: quella cristiana, paradossalmente, sì.
La storia è interessante. Era l’inizio del 1900 quando Habubullah Khan, grande emiro dell’ Afghanistan, impose alle duecento donne del suo harem una speciale copertura che scongiurasse ogni tentazione maschile, che non fosse la sua. Più in generale, fuori dalla residenza reale, le donne dell’emiro non dovevano neppure essere guardate: e nacque il burqa, inquietante copertura che da principio contraddistinse le donne di alto ceto. Ma di religioso, appunto, non c’era nulla. Il Corano non ne parla, anzi, quando genericamente affronta l’argomento – al verso 59 della sura XXXIII – dice che le donne devono essere riconosciute, come è possibile fare con tutte le coperture islamiche tranne una, o una e mezza: col burqa, appunto, e assai spesso col niqab, che serve a velare il volto lasciando scoperti solo gli occhi. Nel tempo, tuttavia, il burqa si diffuse in tutto l’Afghanistan: e mentre i ceti elevati lo abbandonavano, quelli poveri lo facevano loro. Sembrava dovesse sparire nel 1961, in Afghanistan, che una legge ne aveva vietato l’uso alle dipendenti pubbliche: ma poi ci fu la guerra civile e il regime teocratico dei talebani giunse progressivamente a vietare a ogni donna di mostrare il volto. Il burqa divenne una regola che oggi resta discretamente rispettata anche in Iran, in parte della Palestina, del Libano, dello Yemen, dell’Arabia Saudita – nell’entroterra meno acculturato – e in generale dove ci sono musulmani sciiti. Difficilmente vedrete un burqa in Egitto, Turchia, Emirati Arabi, Kuwait, Indonesia o India.
Se uno stesse fedelmente al Vangelo, invece, potrebbe rifarsi alla Prima lettera di San Paolo ai Corinzi: «Ogni donna che prega senza velo sul capo manca di riguardo al proprio capo… Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza». Va da sé, tuttavia, che una differenza tra islamismo e cattolicesimo sta proprio nel come le due religioni si rapportano ai testi sacri e come i fedeli si rapportano alla religione stessa. Il risultato è che la veletta in testa, oggi, al limite la mette qualche vecchietta del sud all’ora del vespro, pur essendo “prescritto” dalla nostra religione, mentre il burqa in Afghanistan, e non solo, è una regola da rispettare per un buon islamico… pur non essendo scritto da nessuna parte…
Resta il fatto che fa parte di una cultura che possiamo non condividere, ma non scandalizzarci. Perché quanto accade in Italia è l’estremo opposto di quanto avviene in altre parti del mondo.
E anche qui, per fortuna, si è iniziato a scendere in piazza!
Mirko Polisano
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