AUSCHWITZ - È caldo il sole e sono verdi gli spazi verdi tutt’intorno. Se non fosse per quella lunga sequenza di filo spinato che circonda i vialetti che dividono le costruzioni e se non fosse per il fatto di sapere dove si è, si potrebbe pensare ad una qualsiasi rassegna di vecchie e consumate costruzioni. Sappiamo e abbiamo già attraversato il cancello sul quale è scritto “Arbeit macht frei” (Il lavoro rende liberi) beffardo benvenuto per un milione e mezzo di persone che non solo in questo luogo non hanno trovato la libertà ma hanno sofferto atrocità e hanno trovato la morte. Siamo a Oswiecim, cittadina a circa sessanta chilometri ad ovest di Cracovia, quella che i tedeschi hanno chiamato Auschwitz. Al tempo della prima guerra mondiale era una caserma polacca, gli stessi tedeschi la trasformarono nel complesso diventato il lager principale per ebrei e per chiunque fosse “diverso”, per etnia, religione e per scelte personali, compresa l’omosessualità. Oggi è il museo di Auschwitz, con il vicino campo di Birkenau, avamposto dell’orrore e della distorsione umana. Nessun documentario, nessun film per quanto fedele possa essere, rende l’idea dell’abisso, dell’atrocità, dell’assurdità di tanto odio. Nessuna parola è abbastanza per descrivere l’impotenza davanti a tutto questo. La rabbia lascia il posto alla sorpresa per l’inverosimile messo in atto qui. Auschwitz è diviso in blocchi. Gli ex alloggi per soldati polacchi oggi sono testimonianza di paura e morte. I diversi (zingari, omosessuali, testimoni di Geova) e gli ebrei, arrivavano da tutto il mondo per essere annientati e una volta giunti sul posto veniva messa in atto la prima nefandezza: la divisione, quella tra uomini e donne che spaccava famiglie. Ma ce ne era un’altra, quella che portava subito a morte e che riguardava le persone disabili, gli anziani e i malati. Non servivano a nulla, nemmeno ad operare per quei circa quattro mesi di vita (tanto durava l’esistenza nei campi) a lavorare per i soldati. E allora via a “fare la doccia” dopo il lungo viaggio che per portare ad Auschwitz poteva durare anche due settimane e in vagoni che servivano quale trasporto di giorno, per dormire di notte, ma anche per urinare e defecare. Dallo spogliatoio dove lasciavano valigie e se stessi, si spogliavano dei vestiti per poi andare sotto le docce. Finte. In alto piccole botole lasciavano cadere anziché acqua, sassolini di cianuro. La morte durava dai dieci ai venti minuti. L’ultimo atto era il forno crematorio per non lasciare traccia. La guida ci dice che la puzza acre arrivava a 15 chilometri di distanza. Per chi veniva risparmiato!! c’era il lavoro e i più “fortunati” erano quelli che sapevano fare qualche mestiere: barbieri, sarti, falegnami e altri lavori. E tra i “fortunati” c’erano i musicisti che improvvisavano momenti di intrattenimento. Nei vialetti si marciava, ogni fila era composta da cinque persone così per i tedeschi era più facile contarli. Nei vialetti si moriva e chi, per la disperazione tentava la fuga attraverso il filo spinato c’era comunque la morte. I soldati preferivano uccidere gli aspiranti suicidi prima che si arrampicassero sul filo spinato attraversato dall’elettricità: viceversa sarebbe stato complicato staccare i brandelli di carne dagli steccati. Negli stessi vialetti si poteva morire alla forca (numerose quelle esposte) o per fucilazione davanti al muro della morte e nel cortile della morte. Una eventualità molto rara: si faceva troppo rumore e si spendeva troppo in munizioni, meglio il silenzioso cianuro (molte le scatole esposte che lo contenevano). E tra gli oggetti esposti, il blocco 4 conserva tonnellate di capelli custoditi in enormi teche di vetro; i prigionieri venivano infatti rasati ma non era un’ attenzione nei loro confronti. Evidentemente, crediamo, era la paura di prendere i pidocchi. Nel blocco 5 altre enormi teche conservano gli occhiali, i paramenti ebrei, le stampelle dei disabili, bacinelle, padelle, oggetti personali portati con le valigie, anche queste a migliaia. Ognuna con il nome e la data di nascita: Marta, Klement, Eva… ed ancora, cesti di vimini che erano serviti per il cibo durante il viaggio, migliaia e migliaia di scarpe, una montagna e di tutti i tipi, le scatole con la crema per pulirle e spazzole per capelli, pennelli per la barba. In una teca più piccola scarpine e camicine appartenuti ai prigionieri più piccoli. Altri oggetti più preziosi erano preda dei tedeschi. Lungo i corridoi migliaia di foto (tre per ognuno) ma con il tempo i poveretti non venivano più fotografati: erano ormai troppi. Ben presto dalla capienza di 700 i blocchi si ritrovarono ad ospitare 1000 prigionieri (il primo trasporto avvenne nel ‘40). Auschwitz e Birkenau cimiteri senza tombe…
[CONTINUA…]
Emanuela Sirchia
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